Cartoline in bianco e nero dall’America
Al cinema In sala giovedì 9 maggio, «Che cosa fare quando il mondo è in fiamme?», il nuovo film di Roberto Minervini, sulla comunità african american in Louisiana. Un vagabondaggio nella realtà che non riesce a restituirne un punto di vista in profondità
Al cinema In sala giovedì 9 maggio, «Che cosa fare quando il mondo è in fiamme?», il nuovo film di Roberto Minervini, sulla comunità african american in Louisiana. Un vagabondaggio nella realtà che non riesce a restituirne un punto di vista in profondità
In una intervista su un sito di cinema on line (www.filmidee.it), Roberto Minervini definisce Roma di Alfonso Cuaròn «un film bugiardo di un autore crumiro». Il giudizio sul film è chiaro, quello che sfugge è l’aggettivo scelto per il suo regista: «crumiro». In che senso Cuaròn è un crumiro? Questione di metafora, probabilmente, ovvero è un «crumiro» perché sfrutta i suoi personaggi, nello specifico la protagonista di Roma, Cleo (Yalitza Aparicio), la giovane donna, oggi anziana, a servizio della sua famiglia, buona borghesia messicana, che lo ha cresciuto.
LO STESSO però potrebbe valere per Minervini con in più il fatto che i suoi film, a differenza di quelli di Cuaròn, sono presentati come «documentari» dove i personaggi non interpretano la vita di qualcun altro, che come tale è mostrata nella distanza della finzione, ma la propria. Nel bene e nel male. Ciò rende, visto che il documentario (godardianamente) esige un’altissima messinscena per ottenere una altrettanto elevata verità, la posizione del regista ancor più delicata – e che piaccia o no nel suo film «di finzione», Cuaròn la dichiara in modo netto: lui è il bimbo della borghesia che mai si mette oltre la soglia pretendendo di diventare la «tata». Meno evidente è invece la posizione di Minervini, il quale oltre il marchio del «vero» sembra rifugiarsi in una sorta di presenza/assenza rispetto al mondo con cui si confronta.
EMBLEMATICO a questo proposito è un passaggio nel film precedente del regista, Louisiana (The Other Side, 2015) quando il protagonista, tossicodipendente e per autodefinizione «criminale», va a portare la droga a una ragazza spogliarellista in un locale; lei si buca subito anche se è incinta. Non si tratta di scandalizzarsi (così come non scandalizza lo stesso tizio che poco prima fa sesso con la sua compagna davanti all’obbiettivo), è piuttosto questione di dove sta rispetto ai suoi soggetti la macchina da presa e con essa il regista. Minervini fa sembrare di non esserci ma c’è, è là che filma eppure il modo in cui ci conduce nella sequenza lavora sull’«invisibilità» che nella scelta di un momento in cui tutto può accadere – anche una overdose – non è accettabile. Non è moralismo ma morale, riguarda l’etica necessaria, il mettersi in gioco, il rischio che si assume; le immagini non sono tutte uguali e scegliendone alcune perché non siano come il magma quotidiano che ci sommerge deve essere chiaro dove sta chi le fa. Il contrario vuol dire essere «crumiri», sfruttarle.
Nel nuovo film,What You Gonna Do When the World’s on Fire? – Che cosa fare quando il mondo è in fiamme? – presentato in concorso alla scorsa Mostra di Venezia, da giovedì in sala – Minervini continua la sua esplorazione del paesaggio americano. Siamo ancora nel sud, in Lousiana, stavolta nella comunità african american che ogni giorno combatte contro razzismo, classismo, sessismo. È la storia americana passata e presente, una linea mai interrotta di violenza, segregazione, marginalità, negazione dei diritti: la polizia che spara, i giovani neri linciati, l’uragano Katrina che ha devastato le loro vite e invece di ricevere risposte dalle istituzioni, dal governo vengono cacciati dalle nuove economie che non vogliono neri poveri nei progetti di gentrificazione. «Odio combattere ma non posso farne a meno» dice Judy. Ha un vissuto di dolore, droghe, con la madre sono tra quelli messi fuori casa per costruire palazzi di lusso, intanto lei cerca di difendere il suo bar dai debiti.
RONALDO e Titus sono due ragazzini, vagabondano in giro e la mamma ha sempre paura che rimangano fuori col buio rischiando di farsi ammazzare. Kevin «Big Chief» continua a preparare i costumi secondo la tradizione indiana del Martedì grasso, anche questo un gesto di resistenza per non scomparire. I nuovi Black Panther gridano «Black Power!», vogliono risposte sull’ingiustizia e le persecuzioni poliziesche che non avranno.
Questa Louisiana è molto diversa (speculare direi) da quella del precedente film a cui dava il titolo. Al centro lì c’era l’America bianca «trash» che non per questo solidarizza con gli altri – tanto meno con la comunità african american anzi, come sappiamo una delle leve predilette da fascisti e sovranisti mondiali è sfruttare la frustrazione creando nemici. Difatti i bianchi armati fino ai denti che si allenano con pistole e fucili durante i loro pic nic nei boschi vogliono proteggersi dall’invasore (neri, islamici, migranti messicani e latinoamericani …). «Legittima difesa» direbbe qualcuno, e nei Black Panther degli anni ’60 la cosa più intollerabile era proprio rendere la battaglia per i diritti civili lotta di classe.
EPPURE Che cosa fare quando il mondo è in fiamme? nonostante l’empatia e la materia inattaccabile, il soggetto attuale, radicato nel nostro presente funziona meno di Lousiana: perché? Cosa è che manca? Forse del sentimento, un’emozione, un corpo a corpo con quella realtà che scivola nel bianco e nero senza «veri» sussulti? Qualcosa che – inevitabilmente – ci riporta di nuovo alla posizione del regista. Anche stavolta Minervini non è chiaro dove sia, o forse sì, è distante (e non solo perché non si getta tra le cariche della polizia), rimane sulla superficie delle cose, su una rappresentazione di quell’universo che non produce fratture con la sua iconografia. E stavolta a compensare la relazione «mancante» non c’è nemmeno quell’attrazione che il regista ha per l’ambiguità, assai forte nell’altro film, per il lato più «oscuro» del mondo e delle persone.
Gli sfugge così il personaggio bellissimo e dolente di Judy, il solo che esiste davvero, gli sfugge soprattutto l’essenza di quel conflitto continuo, la sua temperatura, il suo svolgersi intimamente e nella collettività. I suoi frammenti sparsi di realtà non sollevano domande e nemmeno rabbia. Sono lì, potrebbero interrogarci ma lui, il regista, non lo fa. E anche loro rimangono in silenzio.
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