Cultura

Cartografia del disordine

Cartografia del disordine«Atlas» di Cildo Mereiles, performance del 2007

Saggi «Exploit come rovesciare il mondo ad arte», a cura di De Finis, Benincasa, Facchi: un libro corposo che raccoglie molti interventi per indagare fra le pieghe della politica e della sua estetizzazione

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 8 agosto 2015

In latino «fingo» vuol dire «creare», «plasmare». Allora è giusto dire che Exploit come rovesciare il mondo ad arte (edizioni Bordeaux, pp.1104, euro 30) più che rovesciare finge un altro mondo, ancora prima di verificare se sia possibile o meno?
Certo, questo volume vorrebbe invitarci inizialmente a pensare a un mondo rovesciato, un po’ come quello che trova il suo bilico poggiando sulla Base del Mondo di Piero Manzoni che Carolyn Christov-Bakargiev ricorda nel suo intervento. Un mondo che solo nel momento in cui si capovolge, si apre a una migliore accoglienza di ognuno.

Entrare in questa «finzione di mondo» significa entrare in oltre mille pagine che si pongono nelle mani del lettore surriscaldandole come in un fenomeno di entropia; moltissimi interventi che l’uno dopo l’altro, insieme ma anche in contrapposizione tra loro, costruiscono una nuova visione del tormentato rapporto tra arte e politica che, proprio mentre si definisce e assegna un verso alla successione degli stati del sistema, misura la porzione del disordine esterno e interno a quella proposta.

Sempre dentro la metafora dell’altro mondo, Giorgio de Finis e Fabio Benincasa (curatori del volume insieme a Andrea Facchi) dichiarano che Exploit è sia un codice di un Medioevo contemporaneo, che deve conservarsi dalla fredda e ordinata furia dei barbari che detengono il potere, sia una raccolta di mappe per addentrarsi nell’esplorazione. Il rischio ricercato e forse voluto è che, come i Collegi dei Cartografi di Borges, qui l’arte della cartografia raggiunga un tale grado di perfezione che la Mappa dell’Impero uguagli in grandezza l’Impero e coincida puntualmente con esso. Perché il valore epistemico e di produzione di interpretazione di questo volume è nella spazializzazione tessuta dall’insieme degli interventi, nel suo aver coinvolto una gran quantità e eterogeneità di specifiche prospettive.

Ogni intervento è un punto di vista indipendente dell’Impero, una porzione piccola di una grande mappatura che aderisce perfettamente a quello che Bateson diceva: «Ciò che si trova sulla carta topografica – sosteneva l’antropologo inglese – è una rappresentazione di ciò che si trovava nella rappresentazione retinica dell’uomo che ha tracciato la mappa; e se a questo punto si ripete la domanda, ciò che si trova è un regresso all’infinito, una serie infinita di mappe: il territorio non entra mai in scena».

Tutti gli interventi sono quindi segni convenzionali, anche quando riottosi e recalcitranti, che il lettore accoglie come riproduzione variante di una realtà che potrebbe anche squarciarsi verso una possibile felicità. Ecco allora che si pone la questione di quale sia la realtà proposta dal libro nel suo insieme. È una realtà che corre il rischio dell’autoreferenzialità spesso addebitata al mondo dell’arte e alla riflessione che intorno alla sua idea si misura? In effetti, il lettore viene messo in guardia del possibile corto circuito che risiede nella parola «riflettere», del rischio di rispecchiare un universo chiuso ancor prima che pensare attorno ad esso possibili strategie di uscita o inversione. Ma, procedendo nella lettura, ciò che si compone è uno squadernamento della presunta autoreferenzialità, una sorta di deflagrazione che nasce dall’urgenza di fare fronte a un fatto che appare, pur nella sua gravità, una sorta di pretesto, nulla di più che un balenio della storia.

Andiamo con ordine: Exploit si assembla intorno alla critica della parodia drammatica della società dello spettacolo e del consumo indistinto rappresentata dall’Expo di Milano, ma anziché essere un semplice antagonismo di un giorno, si era pensato come una sorta di «istruzioni per l’uso» per una settimana di cantiere artistico da svolgere a Milano nei giorni dell’apertura del mostro.

Lo sgombro della T.A.Z. di Proprietà Pirata ha impedito il versante performativo del progetto e ha lasciato questo libro a intraprendere un percorso più diramato ancorché solitario. Allora le pagine diventano non più istruzioni per usare l’arte in un rapporto evenemenziale, ma baedeker per aggirarsi nella capacità dell’arte e del pensiero che genera attorno a sé di sviluppare «il potere di azione sulle cose», ed è questo potere che si mostra e si svela, finalmente, territorio.

Impossibile anche solo accennare a tutti gli interventi raccolti nel libro e, proprio rispettando la scelta della vastità spaziale e temporale, piacerebbe elencarli come città di quella porzione di mondo che non si tocca, ma alla fine si conosce, anzi si vuole conoscere ad ogni costo.
Al termine della lettura random e disordinata, come è spesso il pensiero nascente, si ha la certezza che quell’altro mondo che Exploit teorizza sia un mondo che non è affatto «altro» se non rispetto a logiche e coordinate che appartengono a un presunto modello unico e imperante che disturba pensare vincente e che, di fatto, non lo è proprio nel momento in cui mostra e rappresenta il suo punto di catastrofe per mezzo di una violenza e un cinismo brutali, eppure paradossalmente impauriti. Una paura che si mostra nella quotidianità come costante, incessante estetizzazione della politica, delle sue manifestazioni, della sua progettualità.

Ed è in questo mondo unico, nel senso di appartenere a tutti – in cui il volume e il progetto che rappresenta accettano infine di stare in accesa dialettica – che l’arte ritrova il suo senso visionario e di barricata, di rivolta e di difesa, di accettazione di essere gesto politico per illuminare il sopruso del gesto estetico compiuto dalla politica.

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