La riflessione su teoria e sviluppo della democrazia fino alla contemporaneità è faccenda assai complicata. Oltre alle differenti visioni (elitiste, democratiche o filotiranniche), stanno molte altre sfide. Di recente, è emerso pure che pensare il tema in chiave «eurocentrica» ha condotto a trascurare altre esperienze e assecondare un primato di matrice imperialista (e androcentrica). Come affrontare il soggetto, dunque, con respiro, ma senza soccombere all’ansia di completezza? Serve un approccio pragmatico, e così opera Paul Cartledge, storico della Grecia antica, in Democrazia, una biografia (a cura di Giovanni Giorgini e Dino Piovan, trad. it. di A. Scudieri, Edizioni Ariele, pp. 390, € 26,00). Forte di lunga esperienza, l’autore dialoga con molti studiosi che, dall’antichità a oggi, hanno ragionato di democrazia dandone valutazioni e definizioni alquanto divergenti. Il suo approccio è molto concreto e interdisciplinare, senza astrattezze teoriche e con richiamo di ogni evoluzione delle prassi e del pensiero nel contesto in cui si manifestò.
Di fondo sta una prospettiva ottimistica, contraria all’idea che la democrazia oggi «sia sminuita, mal gestita o svuotata». Aprono l’analisi utili messe a punto sull’oggetto, sul lessico, sulla storia della questione. Si esaminano fonti antiche e studi moderni o contemporanei. Se ne espongono con pacata chiarezza le tesi, senza presupporre troppo dai lettori (nessun tono da «come Loro ben sanno»). Molte le linee tematiche da gestire, dato che ogni ragionamento sulla teoria politica greca parte dalla pagina in cui Erodoto riferisce un dibattito, in Persia, sulla migliore forma di governo. Tra le pagine più interpellate resta, oltre alle opere dei filosofi più celebri, un famoso e sfuggente libello oligarchico, attribuito a Senofonte, di cui si è parlato qui in altra occasione (4/11/2018). Il ruolo della «rivoluzione intellettuale» in Ionia arcaica è ben valorizzato. Ma poi si approda fatalmente ad Atene, anche se spazio viene dato (con Aristotele) al funzionamento di altre democrazie elleniche, come Argo, Corinto o Siracusa, che nella maggior parte furono più moderate (ossia più oligarchiche) rispetto al modello più noto. Né Sparta è trattata come una mostruosità protonazista, ma studiata come diverso sistema di governo.
Emerge così uno strano doppio standard: anche i moderni rinfacciano ad Atene democratica i massacri di alleati, mentre non si deprecano le vittime di talune dure azioni spartane, o di democrazie come Argo. Essere di esempio, talora, risulta oneroso. Del governo popolare in Atene sono ripercorse le successive evoluzioni: della prassi democratica l’autore vuole mostrare un’immagine non tanto legata a principi e diritti, ma soprattutto concreta e dinamica. Concreta, nello spiegare per esempio chi si riuniva, quante volte e come, chi votava e come (cioè a dire: meno città ideali platoniche, e più dati desunti dallo Stato degli Ateniesi aristotelico). Dinamica, nell’esame degli aggiustamenti successivi del sistema, senza tacere, ovviamente, i limiti del sistema, ieri come oggi vulnerabile alla demagogia. La democrazia ad Atene non finì bruscamente, come il classicismo amava dire, con la sconfitta nella guerra contro Sparta (404/3 a.C.): la periodizzazione adottata, originale e feconda, arriva al 335 a.C. (al IV secolo a.C. risalgono, poi, le fonti più importanti).
In tale quadro «lungo» sono discussi i ruoli dei successivi leaders del popolo ateniese (Clistene, Efialte, Pericle), e l’importanza di aspetti oggi meno considerati, come i tribunali popolari, o il ruolo della religione inglobata nella vita cittadina, anche politica. Data l’importanza dell’attività giudiziaria, si parla di celebri processi, compreso quello che condusse Socrate a una condanna, qui imputata più a scelta dell’imputato che a errore grave della democrazia. Il contenuto politico del tema è in piena evidenza: anche per questo Cartledge ribadisce, a scanso di idealizzazioni e pregiudizi, che Atene non si propose con coerenza di «esportare» la propria democrazia, gestendo il proprio impero in termini soprattuttto di sicurezza e potere.
L’Atene del IV secolo, ossia una vera democrazia che giunse fino all’età di Demostene e Licurgo, è tra le fasi che il libro descrive con più partecipazione, pur riconoscendo che vi fu una lenta svolta verso una forma di governo «più verticistica, meno spontaneamente cooperativa». Dopo Alessandro Magno, le istituzioni rimanevano formalmente democratiche, ma in progressiva «atrofia», per la perdita di libertà e autonomia e per la tendenza verso un regime di notabili (che oggi pure si manifesta). Lo sguardo istituzionale, qui, s’allarga di più verso i temi economico-sociali, con le lotte rivoluzionarie che scossero il medio ellenismo. Rapido lo sguardo su Roma: non è infatti così chiaro se e quanto le forme di governo sul Tevere fossero democratiche (nell’antichità). Celebri studiosi l’hanno negato, né per comprenderlo giovano, secondo Cartledge, le analisi di Polibio, o di Fergus Millar. E del resto, i deboli spazi di potere popolare consentiti nelle istituzioni romane scomparvero con la «democrazia negata» instaurata dall’Augusto.
La ricerca segue, con passo più cursorio, anche i secoli successivi, esaminati solo con veloce sintesi. Il «punto di vista» squisitamente anglico sacrifica esperienze significative come il comune medievale, ma utilmente discute dei «livellatori» e poi delle rivoluzioni (inglese, americana, francese), con i loro modelli greci (Sparta, più che Atene) e romani. La sezione finale ripercorre, con efficacia, alcune tappe del dibattito moderno, da Grote a Stuart Mill, la cui riflessione «di derivazione greca ma non influenzata dalla Grecia» contribuì al mito di Atene come modello della moderna democrazia. Mito consolidatosi nel secondo dopoguerra e che appare oggi precocemente logoro, quando sfidato dalla globalizzazione, dalla società digitale, dalla rinuncia alla «partecipazione» (per gli ateniesi la nostra sarebbe l’età della apragmosýne, del «farsi i fatti propri»), da una differente idea di che cosa sia «libertà». Le crisi indotte da scelte espresse direttamente dalla volontà popolare (la Brexit), la mobilitazione di folle antidemocratiche (a Washingon come a Brasilia) dicono di una situazione delicata in cui agiscono nuove possibilità di mobilitare le masse: solo una meditata educazione democratica, compreso forse il voto obbligatorio, potrà per Cartledge correggere la deriva. Quanto ottimismo! La situazione appare già compromessa, e la democrazia conosciuta nel Novecento si avvia verso forme non prevedibili.
Questo è un libro utile, che grazie a un editore «minore» giunge al pubblico italiano. La scrittura brillante, non appesantita da note, è uno dei tratti più inglesi. Come lo sono pure i libri adibiti e suggeriti, quasi solo in inglese. Poiché però la democrazia è studiata anche altrove, avrebbero meritato menzione e discussione altri lavori in francese e perfino in italiano (era questa un’antica lingua europea, ormai nota solo a pochi specialisti). Al lettore che vorrà ricomporre tra sé i termini del dibattito (per esempio, le critiche analisi di Canfora) sarà di fattivo aiuto il saggio conclusivo di Piovan. Nel suo discorrere, Cartledge ama talora formulazioni provocatorie: come quando asserisce che in Eschilo i persiani compaiano come «sudditi effeminati, servili e barbari» di contro ai greci, «cittadini virili, liberi e capaci di autogovernarsi», con una polarizzazione che certo va oltre le intenzioni del tragediografo. Quando definisce Senofonte uno storico «scialbo e fazioso» e Svetonio un biografo che pare scrivere una «tesi di dottorato». Sono minuzie, però. La questione importante posta dal libro, che ritorna nel finale, non è tanto decidere se Atene antica sarebbe giudicabile oggi come una democrazia, ma ancor più se l’esperienza politica greca (e il ripensamento di essa) sia rilevante per la nostra età, se suggerisca spunti (il rendiconto, per esempio). Il libro è la risposta.
La lunga familiarità con il soggetto consente a Cartledge di servirsi dei materiali antichi e moderni con sapiente brillantezza. Si ritrova così una frase di Finley, avversa all’elitismo intellettualistico prediletto da Platone, e realizzato oggi in senso tecnocratico: «Quando noleggio o mi pago un passaggio su di una nave, lascio che sia il capitano, l’esperto a guidarla, ma sono io a decidere dove voglio andare, non il capitano». Da qui, forse, si potrebbe ripartire, anche di fronte alle nostrane nostalgie di comandanti potenti: però, al momento presente, nemmeno i capitani sono più così esperti.