Cartier-Bresson, la flânerie per l’Italia in mutazione
A Rovigo, Palazzo Roverella, "Henri Cartier-Bresson e l’Italia", a cura di Walter Guadagnini e Clément Chéroux La realtà caleidoscopica del Paese nei reportages lungo quattro decenni, a partire dal 1929. Un’antropologia umanistica in chiave «attimale»
A Rovigo, Palazzo Roverella, "Henri Cartier-Bresson e l’Italia", a cura di Walter Guadagnini e Clément Chéroux La realtà caleidoscopica del Paese nei reportages lungo quattro decenni, a partire dal 1929. Un’antropologia umanistica in chiave «attimale»
Nella sede espositiva di Palazzo Roverella a Rovigo si svolge, fino al 26 gennaio, la mostra Henri Cartier-Bresson e l’Italia, a cura di Walter Guadagnini e Clément Chéroux, direttore della Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi.
Il catalogo (pp. 224, € 34,00), pubblicato da Dario Cimorelli Editore, accoglie contributi degli stessi specialisti e un saggio di Carmela Bisaglia sui soggiorni lucani del fotografo. La mostra, comprendente circa 160 foto, offre un singolare spaccato dei rapporti intercorsi tra quello che venne soprannominato, per la sua esemplarità, «l’occhio del secolo» e la realtà caleidoscopica del nostro paese, cadenzato da una serie di reportages effettuati nell’arco di quattro decenni.
Tante immagini confluirono, come quelle realizzate in giro per il mondo, in prestigiose riviste internazionali («Life», «Vogue», «Holiday», «Harper’s Bazaar»), nonché in pubblicazioni autonome dello stesso fotografo quali Les Européens, edito da Verve nel 1955 con copertina disegnata da Mirò.
Cartier-Bresson aveva l’abitudine di soggiornare a lungo nei paesi stranieri visitati (trascorse tre anni in Asia), al fine di «stabilire dei rapporti con la comunità umana che ci ospita», secondo quanto asserito in un’intervista.
Le trasferte italiane di Cartier-Bresson, qui documentate e suddivise in apposite sezioni, offrono così una visione esauriente sia della sua peculiare evoluzione artistica sia di quel fondamentale passaggio antropologico che portò il nostro paese, partendo da istanze di matrice rurale, a misurarsi con una nuova dimensione tecnologica e industriale.
Il viaggio inaugurale fu intrapreso con l’amico André Pieyre de Mandiargues e la fidanzata Leonor Fini nel 1932. Lo scrittore fu immortalato in primo piano a Livorno mentre fuma una sigaretta sullo sfondo di un pannello pubblicitario ritraente tre volti grotteschi, con nasi spropositati protesi verso una forma circolare di parmigiano.
La giovane coppia, in antiquata mise balneare nello stabilimento di Muggia, affiora poi dal mare di Trieste formando, attraverso le membra curiosamente intrecciate, una sorta di seducente polipo con la testa di Mandiargues; in un’altra raffigurazione campeggia il corpo acefalo di Leonor Fini che ostenta, a pelo dell’acqua, un’improvvida nudità di sirena. In antitesi con queste rare concessioni alla sensualità figura il ritratto di Mandiargues in compagnia della moglie Bona de Pisis, emergente, a distanza di vent’anni, da un pozzo veneziano.
Il giovane Cartier-Bresson, allievo del pittore cubista André Lhote, nel cui atelier conobbe Dora Maar, si muove animato dal fascino della fotografia Boys running into the sea di Martin Munkácsi e dall’opera variegata di André Kertész, entrambi ungheresi.
Leo Longanesi rimase impressionato da alcuni scatti, accolti nella rivista «L’Italiano», compresa la natura morta di Tivoli, dove si vedono svariati frutti disposti in una cassetta di legno. È una delle poche immagini in cui risulta bandita la presenza umana, nonostante sia adombrata dagli eleganti profili di attrici che spuntano, alla stregua di ectoplasmi, dal foglio di giornale allestito per coprire il fondo della cassetta.
Scrisse Bonnefoy: «Nessun personaggio appare in questa fotografia eppure, nonostante tutto, qualcuno c’è: la sua assenza». Longanesi sfrutterà la celebre accoppiata dei voyeurs, sorpresa a Bruxelles nel 1932, per illustrare la copertina di In piedi e seduti (1948).
La flânerie di Cartier-Bresson, armato solo di una Leica e del proprio smisurato talento, si manifesta qui senza preoccupazioni intorno a problemi di committenza, spaziando liberamente da un soggetto all’altro: un potenziale autoritratto in cui immortala, in bilico tra sentiero e radura, il suo piede scalzo, varie piazze riprese dall’alto in una sospensione metafisica, un giovane che legge il giornale con la testa nascosta da un lembo di tenda.
L’adesione al credo surrealista si evidenzia mediante spunti di taglio dechirichiano e magrittiano, anche se nelle opere di HCB, iniziali con le quali il fotografo firmava i propri disegni, non c’è nulla di artefatto, essendo tutto riconducibile al «momento decisivo», come lui stesso l’aveva definito.
È la poesia dell’attimo sottratto dal suo «obiettivo ben temperato» all’horror vacui: dalla silhouette dell’omino che salta la pozzanghera dietro Gare Saint-Lazare (sempre del ’32!) alle donne del Kashmir che, a dispetto delle tuniche grevi, glorificano con antiche mani di oranti la leggerezza del mondo, rappresentata da nuvole incombenti sulle cime frastagliate dell’altipiano.
All’inizio degli anni cinquanta, Cartier-Bresson scorrazza da un lembo all’altro della penisola, soffermandosi in particolare a Roma e in quella Basilicata così magistralmente descritta da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli.
Ebbe incarichi prestigiosi, compreso quello dell’Olivetti che aveva inaugurato da poco la fabbrica di Pozzuoli.
Intanto compie autentici miracoli espressivi: lo scorcio delle case di Matera con scale rudimentali che portano ad altrettanto rudimentali porticine in legno, tre volti, simili a rapaci, affioranti dal gorgo nero dei mantelli durante la messa di mezzanotte a Scanno, uno stuolo di bimbi senesi che allarga le braccia simulando velivoli in volo.
Se si eccettua la veduta del ponte di Torcello attraversato da una ragazzina mentre il ferro di prua di una gondola taglia in due la scena, le istantanee veneziane non hanno la stessa pregnanza di quelle di Willy Ronis o Inge Morath, esponenti della medesima temperie umanistica includente figure di rilievo come Doisneau, Kertész e Lartigue.
Non a caso, la Morath fece parte dell’eletto gruppo della Magnum, agenzia fondata nel 1947 da HCB con vari fotografi, tra cui Robert Capa e David «Chim» Seymour.
Gli scorci veneziani vertono infatti su occorrenze di tipo documentario e sociale, a cominciare dal corteo di lavoratori che sfila lungo le calli sotto la pioggia battente. Nella sua biografia, Pierre Assouline sostiene che Cartier-Bresson detestasse la città lagunare.
In alternativa si delinea l’effigie ieratica, quasi scolpita, del «miglior fabbro» Pound, condannato a un impenetrabile silenzio, come Tiresia a una cecità da veggente. Non mancano i ritratti: oltre al sunnominato Levi, appaiono Sciascia, Nervi, de Chirico, Rossellini, Visconti, Pasolini attorniato dai pargoli di Pietralata. Numerose, a tratti commoventi, le immagini dedicate all’infanzia: dalla ragazzina senza volto che attraversa una piazza romana sorreggendo una bottiglia d’olio ai due fratelli improvvisatisi pistoleri durante la festa della Befana.
Nella produzione degli anni settanta spicca un’istantanea dal valore paradigmatico per il contrasto creatosi tra due fanciulli spensierati, intenti a rincorrere sul marciapiedi la ruota staccata di una bicicletta, e un corteo funebre immerso nel traffico palermitano di punta.
Eppure tutto si svolge all’insegna della levità, della naturalezza, di un’essenzialità giacomettiana, laddove gli elementi sembrano disporsi sul filo di una casualità che non disdegna l’ordine lineare, geometrico (vedi l’«orrido» materano del 1973 con il giovane che, alla stregua di un lillipuziano, si arrampica lungo le mura sbreccate dei Sassi, o certe vedute a volo d’uccello di qualche deserta straducola abruzzese).
Tali Images à la sauvette, come si intitola un libro del 1952, pubblicato da Tériade con copertina di Matisse, costituiscono una sorta di salvacondotto all’ideale di bellezza ingiuriato con veemenza da Rimbaud. Rigorosamente in bianco e nero. Asserì Jean Clair: «Nessuno saprà essere come lui leggero e mercuriale».
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