Carrie, un “remake” di segno femminile
Cinema Il film di Kimberly Peirce, con Julienne Moore, omaggia De Palma ma rivendica una sua cifra personale
Cinema Il film di Kimberly Peirce, con Julienne Moore, omaggia De Palma ma rivendica una sua cifra personale
Ci sono dei film che nascono morti. Sulla carta l’idea di un remake di Carrie – Lo sguardo di Satana può sembrare una grande idea ma, e nonostante la diffidenza produttiva che circonda grandi vecchi come Brian De Palma, il timore reverenziale verso un classico che ha riscritto molte delle regole che ancora dominano l’horror, instilla nei critici una sorta di stroncatura preventiva. Ovvio che il confronto con il film di De Palma è implacabile. Non è inutile però ricordare che il film di Kimberly Peirce è più un adattamento del romanzo di Stephen King che un rifacimento depalmiano. Nella versione della Peirce ci sono omaggi al Carrie depalmiano, ma il confronto fra i due titoli si ferma al rispetto reverenziale per un film innovativo e ancora perturbante.
Messo dunque da parte il convitato di pietra De Palma, al netto di stroncature, sospetti e polemiche, il nuovo Carrie resta un buon horror adolescenziale ottantesco che rilegge l’epifania del menarca di King in un’ottica finalmente tutta femminile (forse perché la mano è di una regista).
L’incipit del film di Peirce ( esordì con Boys Don’t Cry ’99) è un pugno allo stomaco. Forse una dei momenti più inquietanti dell’horror degli ultimi anni. Julianne Moore, di nuovo stellare in un ruolo che la riporta ai vertici assoluti di un capolavoro come Safe di Todd Haynes, riprende il ruolo che fu di Piper Laurie nel film di De Palma. Nelle sue mani Margaret White diventa la versione «born again» di una mansoniana fondamentalista cristiana tutta nervi e mortificazione del desiderio. Un tour de force in minore che resta inciso negli occhi. Alla sempre sorprendente Chloë Grace Moretz, la Hit Girl della franchise Kick-Ass, spetta l’arduo compito di raccogliere l’eredità di Sissy Spacek.
Se la fragilità inquieta e disturbante di Spacek reggeva il fascino ofidico della Carrie depalmiana, Moretz invece, corpo schiettamente mutante e, nonostante il make-up, straordinariamente sensuale, provoca qualche inceppo alla sospensione dell’incredulità rispetto all’apartheid estetico decretato nei suoi confronti dalla perfida Portia Doubleday (già apprezzata in Her di Spike Jonze). Scaltramente Peirce circonda però la sua protagonista di corpi femminili che sembrano tratti di peso dai reality di Mtv – anche se di Gabriella White sentiremo senz’altro ancora parlare in un futuro non molto distante – e pertanto Moretz resta isolata nel perimetro dell’inquadratura come una presenza aliena. E che si tratti di un’interprete fuor dal comune, lo si evince nei momenti di confronto con Moore, quando le tiene testa alla pari, senza nessun timore di sorta.
L’apice del film, con la rivelazione del potenziale devastante dei poteri telecinetici di Carrie, è il pezzo di bravuraregistica di Peirce, in grado di gestire un drammatico crescendo catastrofico senza andare nella direzione dei climax tiranneggiati dagli effetti speciali ma intrecciando nella distruzione le motivazioni dei personaggi.
Ed è quando è tutta ricoperta di sangue che Moretz brilla di luce propria. Quando la furia le deturpa i tratti del viso e il corpo pare spezzarsi, travolto dall’incontenibile energia che le attraversa le viscere.
Anche se il film non osa, ma senz’altro non ha voluto replicare l’epilogo shock del film di De Palma, Carrie in versione Kimberly Peirce si segnala comunque come uno dei migliori adattamenti di Stephen King da molti anni a questa parte.
Non siamo ovviamente nella categoria superiore dei Cronenberg, Reiner o Darabont, ma il film di Peirce può senz’altro reggere il confronto con gemme dimenticate del catalogo cinematografico kinghiano come Cujo di Lewis Teague, The Night Flier di Mark Pavia o 1408 di Mikael Håfström.
Laddove il film di Peirce è particolarmente convincente, è nel riscrivere le regole del teen-movie recente che, dopo anni di Twilight, senza contare The Host, è diventato il luogo più emofobico dell’immaginario cinematografico contemporaneo.
Come in un rituale pre-politico, il sangue diventa fatto collettivo. Prima la solitudine del menarca, poi il bagno purificatore in esso. In questi momenti sembra risuonare addirittura l’angoscia di Mishima quando ne Il padiglione d’oro si chiede:«Perché la vista del sangue scuote tanto gli uomini? Perché le viscere d’un uomo sono brutte? Non sono fatte della stessa materia di cui è fatta la tanto ammirata e tanto splendente pelle dei giovani?».
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