Carrà, lettura difficile di una modernità frastagliata
Carlo Carrà torna in mostra a Milano, Palazzo Reale L’omaggio meneghino al pittore di Quargnento testimonia il suo stretto rapporto con la città, soprattutto nel momento futurista, ma stenta nel selezionare i punti di forza e di snodo dell’opera
Carlo Carrà torna in mostra a Milano, Palazzo Reale L’omaggio meneghino al pittore di Quargnento testimonia il suo stretto rapporto con la città, soprattutto nel momento futurista, ma stenta nel selezionare i punti di forza e di snodo dell’opera
Tra Carlo Carrà e la città di Milano i rapporti sono sempre stati, ancorché a fasi alterne, molto stretti. Da principio, riguardarono la formazione dell’artista, il quale scelse l’Accademia di Brera come «bottega» di studio e perfezionamento tecnico; in seguito, nei primi anni del ventesimo secolo, offrirono al pittore piemontese un campo di sperimentazione stimolante ed esclusivo grazie soprattutto all’incontro con il movimento futurista; infine, portarono alla scelta di Carrà di risiedere permanentemente nel capoluogo meneghino, dove rimase fino all’anno della morte nel 1966. Questo rapporto è stato celebrato dal mondo dell’arte e della critica in almeno tre occasioni fondamentali. La prima riguarda la personale che la Pinacoteca di Brera gli tributò nel 1942, a cui seguirono le due importanti mostre allestite a Palazzo Reale nel 1962 – sotto la supervisione di Roberto Longhi – e nel 1987.
In questi mesi, il dialogo Carrà-Milano si arricchisce di un nuovo scambio di battute grazie alla mostra Carlo Carrà (fino al 3 febbraio, a cura di Maria Cristina Bandera, in collaborazione con Luca Carrà), ospitata ancora una volta da Palazzo Reale. L’esposizione raggruppa 130 opere provenienti dalle più importanti collezioni italiane e internazionali, sia pubbliche sia private. Un percorso costellato inoltre da oggetti appartenuti al pittore, audiovisivi e foto che documentano la sua vita privata, libri e riviste biografici e/o teorico-divulgativi. Un’operazione, dunque, molto ambiziosa; un cammino che vorrebbe ripercorrere per intero l’esistenza e la produzione pittorica del maestro di Quargnento; senz’altro, un compito improbo viste le innumerevoli prospettive che di volta in volta l’arte di Carrà ha assunto, rinnegato, ripreso, modificato.
E da qui la domanda: come gettare uno sguardo esaustivo e totale su una produzione artistica così frastagliata, contradditoria, ambigua, libera? L’approccio espositivo individuato dai curatori non appare dei più sofisticati. Le sette sezioni in cui è suddivisa la mostra, infatti, seguono un andamento cronologico, che parte dal periodo futurista di Carrà e arriva fino alle opere degli anni sessanta. Nel dettaglio, si tratta di «Tra Divisionismo e Futurismo», «Primitivismo», «Metafisica», «Ritorno alla natura», «Centralità della figura», «Gli ultimi anni» e «Ritratti». Così, se da una parte il visitatore ha l’occasione di ammirare a pochi metri l’uno dall’altro alcuni dei maggiori capolavori di Carrà, dall’altra il rischio è quello di negargli un preciso taglio critico-interpretativo. Quasi ci trovassimo di fronte a un tentativo di sottrarsi a uno dei compiti primari che la storia dell’arte e la riflessione estetica dovrebbero prendere su di sé, ovvero fornire gli strumenti concettuali necessari a mettere in collegamento l’opera con le idee, la cultura, la società, la Weltanschauung di un determinato periodo storico. In altri termini, il rischio è quello di vedere Carrà senza comprenderlo, di giustapporre le sue tele senza incastonarle nella trama più ampia dell’estetica e della critica primonovecentesche.
Un’impasse che all’interno della mostra assume un tratto quasi sensoriale. Se nelle prime sale il visitatore può avanzare con un certo agio, nelle ultime si ha quasi la sensazione che manchi l’aria. La sequenza di quadri si fa sempre più fitta, le pareti appaiono sempre più ingombre e la visione ne risulta come stordita, travolta dal cospicuo numero di colori, riferimenti, soggetti che affollano le cornici. Certamente, non mancano le eccezioni, come testimonia l’allestimento dedicato alla grande Estate del 1930. Il dipinto che campeggia anche sulla locandina della mostra si impone in tutta la sua robustezza in una sala specificamente dedicata, accompagnato unicamente dai due Nuotatori del 1932 e del 1929. O, ancora, colpisce Il pino sul mare del 1921, che in solitaria occupa un’intera parete e inaugura anche architettonicamente una nuova stagione dell’avanguardia di Carrà, quella che dalla Musa metafisica (1917) conduce ai paesaggi e ai soggetti delle coste liguri e toscane.
All’interno della mostra, questi spazi costituiscono quasi dei momenti di pausa dove allo spettatore è concesso di riposare e affondare nell’opera di Carrà, concentrandosi con maggiore profondità sul suo messaggio pittorico. Obiettivo che in altre parti dell’esposizione viene mancato, come, per esempio, nel caso de Le figlie di Loth III del 1940, opera che finisce per essere «schiacciata» dagli altri dipinti che la circondano, in un movimento tracotante che ingombra l’occhio dello spettatore e fa perdere il centro di gravità dell’osservazione.
Insomma, a Palazzo Reale i visitatori potranno trovare una cronistoria dettagliata delle opere di Carrà. Un excursus ampio che tocca temi, correnti artistiche, riferimenti critici molto diversi fra loro. Un ottimo modo per ripercorrere la biografia dell’artista, osservando da vicino i suoi movimenti, i luoghi in cui soggiornò, le idee che lo attrassero e stimolarono.
Tutto, come si vede, rimanendo ancora nel perimetro della persona-Carrà. Allorquando, invece, ci si voglia avvicinare all’artista-Carrà, le prospettive si fanno più offuscate. In che modo contribuì allo sviluppo delle avanguardie d’inizio Novecento? Quale fu il suo apporto teorico-espressivo al Futurismo, al Cubismo e alle riflessioni pittoriche inaugurate da Cézanne? Per rispondere a questo tipo di domande non si può far altro che «sezionare» l’opera di Carrà, estrapolando di volta in volta un certo tipo di lavori piuttosto che un altro. Non è il caso dell’attuale esposizione, la quale, lo ripetiamo, rappresenta un omaggio all’artista da parte dell’intero capoluogo lombardo. Un omaggio che può essere letto anche come un invito. Un invito a ricordare gli anni in cui Milano fu davvero brillante fucina di idee nuove e provocatorie. Sta tutta qui, forse, l’idea sottesa alla mostra: festeggiare il legame tra la città e lo sfuggente Carrà, sfogliando in un’atmosfera nostalgica e leggermente malinconica il corposo almanacco delle sue opere e delle sue intuizioni. Niente di più, niente di meno.
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