Carolina Bianchi e le donne di «Percurso»
Kermesse Un esperimento sonoro ideato dalla regista e drammaturga brasiliana per il Festival Fuori! realizzato da Emilia Romagna Teatro, curato da Silvia Bottiroli
Kermesse Un esperimento sonoro ideato dalla regista e drammaturga brasiliana per il Festival Fuori! realizzato da Emilia Romagna Teatro, curato da Silvia Bottiroli
Una passeggiata serale per le vie del centro di Bologna, dodici giovani performer donne e persone socializzate donne camminano con piccole casse che amplificano voci che raccontano storie di violenze, molestie, paure. Le ragazze per strada sono in stato dall’erta costante, captano il pericolo, il disagio per un eventuale rischio.
Una paura radicata, anche senza evidenti segni di minaccia, che diventa atto di ribellione e sfida nel riprendersi lo spazio pubblico. Come uno sciame di api, un ronzio di voci attraversa parte della città, città progettate da uomini, spesso non inclusive per il femminile. Le donne che compongono questa comunità ferita, hanno partecipato al progetto Percurso della regista e drammaturga brasiliana Carolina Bianchi e la sua compagnia Cara de Cavalo. Un esperimento sonoro ideato per il Festival Fuori! realizzato da Emilia Romagna Teatro, curato da Silvia Bottiroli. Una riflessione sulla violenza sessuale, tema a cui l’artista lavora da oltre dieci anni e che sarà anche al centro del primo capitolo della trilogia Cadela Força in anteprima a luglio ad Avignone. A Carolina Bianchi abbiamo rivolto alcune domande.
Com’è nato Percurso?
La scrittura è la mia pratica artistica e dentro a questa c’è molta lettura. Un progetto teatrale è accompagnato da tutto ciò che leggo, la teoria è incarnata nei testi, scrivere e pensare a come fare teatro è anche mettere tutti i riferimenti, le parole e come le incorporiamo. Sono testi originali che vengono dalle letture di Feminist city di Leslie Kern e da libri sull’autodifesa su come creiamo strategie per difenderci e sopravvivere nel quotidiano. Siamo tutte delle sopravvissute. Mi chiedo come il teatro, le arti performative, la scrittura possano approcciare questi soggetti. Non lo so bene, e questa è anche la ragione per cui ci sto ancora lavorando, è una ricerca a cui non si può ancora mettere fine. Percurso è stato un invito di Silvia Bottiroli a pensare a un lavoro per lo spazio pubblico.
La mia esperienza è dentro ai teatri, è una sfida portare fuori le conversazioni e le vite di questo gruppo di donne e persone non binarie. Molte di noi hanno storie di paura e abusi, la violenza sessuale se non ci riguarda personalmente è comunque qualcosa che conosciamo bene per via di amiche e conoscenti, ci tocca continuamente.
Abbiamo creato uno sciame, un rumore, una nuvola di suono con cui mettere le storie nelle strade, dove non dovrebbero essere. Spesso sono racconti che restano nel silenzio. M’interessa capire come le diciamo e organizziamo, come vengono ascoltate, come prepariamo i nostri corpi a farlo, l’ascolto dice tanto di noi. Si tratta di un’esperienza di suono e di come il pubblico si sintonizza e cosa decide di sentire. Si racconta qualcosa che è capitato direttamente o a un’amica, ognuna porta un carico sulle proprie paure su cosa potrebbe accadere. Ogni giorno impariamo come difenderci e creare strategie per camminare per strada, cosa fare se abbiamo paura, impariamo presto che fuori potrebbe accaderci il peggio. Ma cos’è il peggio? Cosa potrebbe accadere? Uno stupro. Gli uomini temono di essere derubati, picchiati, le donne di essere violentate. Fin da bambine ci dicono di non andare in certi posti, non giocare con i più grandi, ma la paura non evita che accada lo stesso, anche dentro le case, in famiglia. A queste storie non bisogna attribuire un senso personale, sono di tutte noi. Il lavoro non è su di me, è un soggetto collettivo. Partiamo da cosa ognuna conosce, come riflette sulla violenza e come la si elabora. È una storia condivisa, è importante il ruolo del pubblico per come partecipa. Portiamo nello spazio un soggetto complesso, il dispositivo prevede che il pubblico scelga.
La violenza è un’eredità antica che ognuna di noi porta con sé anche se non l’ha subita?
Nasciamo che già appartiene alle nostre madri e nonne, è qualcosa di storico. Per questo m’interessa come impariamo a difenderci. Ho iniziato a fare judo per non accettare che possa accadermi. Lavoro su questo in una dimensione performativa, non sono un’attivista, sono un’artista e il mio compito è anche aprire discussioni. Non ho risposte. Per creare un’affabulazione c’è anche la dimensione dell’immaginazione, non m’interessa cosa è vero o falso, ma avere spazi aperti per pensare ad altri finali.
Da dove arriva il senso di pericolo che si avverte nello spazio pubblico?
Da molto lontano, da me, dalle mie personali riflessioni e da cose che mi sono accadute. Se sono successe a me possono succedere a molte. Mi confronto e ascolto la comunità che condivide queste informazioni. Non voglio essere naive su questo soggetto, non so se il mio teatro può cambiare qualcosa e cosa possa fare.
Già portare un tema sotto i riflettori significa prendere consapevolezza personale e posizione…
Non si tratta di atti coraggiosi, ma necessari, non siamo eroine. Non mi piace l’idea di dare la parola alle persone, ognuna ha già la propria voce. Percurso è una produzione originale per il festival a cui lavoro da un anno, a luglio debutterò ad Avignone, con il primo capitolo di una trilogia, Cadela Força, sullo stupro e il femminicidio. Ci sono molti riferimenti italiani, all’artista Pippa Bacca, a Dante, Botticelli e a come l’arte si rapporta alla violenza.
Cos’ha trovato e colto a Bologna?
Abbiamo camminato in un’area del centro storico, lo scopo non era muoversi in luoghi pericolosi, spesso attribuiamo la violenza a certe persone e zone, ma non è quello che voglio fare. Abbiamo attraversato parti di una città in cui non abito e che non conosco abbastanza. È un esercizio di immaginazione, un invito lanciato al pubblico. Ho collaborato con i coreografi Francesca Penzo e Lucas Delfino, brasiliano che vive a Bologna, e con la mia compagnia teatrale Cara de Cavalo e Miguel Caldas per il sound design, Marina Matheus, drammaturga insieme a me. Ho incontrato un grande gruppo, è stato molto potente, l’esito finale è solo una parte, in queste settimane sono successe molte cose, devo ancora processarle, mi hanno insegnato molto, è una comunità con il desiderio di scambiare informazioni.
Il corpo assume un valore politico?
Il corpo è politico in sé, è quello che portiamo, i segni che ho sul mio sono la mia politica, la mia etica. È il luogo da cui parlo, attraverso cui agisco nella società. Il colore della mia pelle, la mia provenienza, e il significato di questo lavoro venendo da un paese dell’America Latina è politico. La violenza che si esercita sul corpo femminile è universale, ma l’eredità coloniale è pesante, storicamente veniamo da uno stupro: siamo stati colonizzati, questa è un’aggressione subita. È una storia ancora più sentita dalle persone di colore, dagli indigeni, non posso separarla dal mio vissuto e dalle prospettive da cui parlarne. La posizione che occupa il mio corpo è universale, ma con tanti distinguo. Avere origini in un paese coloniale, che porta tanta violenza nelle differenze di classe, è una parte importante dei segni che portiamo sul corpo. È complesso capire come parlare di questo in un contesto europeo, vivo ad Amsterdam da tre anni, dove sono un’immigrata, ogni anno devo fare il visto, un lungo, costoso e umiliante processo. Allo stesso tempo in Brasile sono una donna bianca, ho dei privilegi. Devo gestire questa complessità. Non ho risposte, questa complessità e confusione si riflettono nel mio lavoro, sono in una posizione scomoda, non ho soluzioni, posso solo riflettere su come provare a costruire qualcosa.
Che relazione c’è fra lo spazio pubblico e il corpo?
Molte città sono costruite con un’architettura patriarcale, dell’esclusione. Noi donne abbiamo limiti su orari, luoghi, vestiti, compagnie, tutto questo riduce la nostra libertà, è nelle nostre radici, impresso nel genere, dentro di noi. C’è qualcosa che paragono alla performance quando affrontiamo situazioni di disagio, come quando passiamo vicino a un gruppo di uomini. Cosa è meglio fare? Rendersi invisibili, essere arrabbiate oppure occupate al telefono? Troviamo strategie per tutte le occasioni. Non vogliamo che ci accada il peggio, vogliamo evitarlo ogni giorno e questo guida molte nostre scelte su come e se ci sentiamo al sicuro con gli uomini, come interagiamo con gli altri e ci mettiamo in relazione. Per le donne è sempre diverso. C’è la paura di provocare, di attirare l’attenzione, tutto diventa un codice che trasmette informazioni.
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