Caro Veltroni, facciamo autocritica
Caro Veltroni, è difficile non condividere la tua preoccupazione per le divisioni a sinistra che aprono un’autostrada a destra e populismi. Sinceramente apprezzo il tuo grido d’allarme, come quello che […]
Caro Veltroni, è difficile non condividere la tua preoccupazione per le divisioni a sinistra che aprono un’autostrada a destra e populismi. Sinceramente apprezzo il tuo grido d’allarme, come quello che […]
Caro Veltroni, è difficile non condividere la tua preoccupazione per le divisioni a sinistra che aprono un’autostrada a destra e populismi.
Sinceramente apprezzo il tuo grido d’allarme, come quello che da tempo ha levato Romano Prodi.
Tuttavia, non possiamo limitarci a un irenico e tardivo appello all’unità, esorcizzando le ragioni politiche delle divisioni quasi fossero riducibili alla categoria del tradimento o dei rancori personali. Merita piuttosto avviare una riflessione sulle radici meno prossime della divisione e sulle pregresse responsabilità.
Innanzitutto una domanda.
Tu, da qualche anno, ti dedichi ad altro, ma sono sicuro non ti siano sfuggiti quattro profili del corso impresso da Renzi al Pd di cui tu sei stato primo segretario: politiche, diciamo così, “più lib che lab”, dentro una crisi che mordeva e che, più che la retorica della “innovazione”, forse domandava “protezione”; una interpretazione della vocazione maggioritaria come presuntuosa, velleitaria autosufficienza; la metamorfosi del Pd in partito personale; un esercizio della leadership divisivo.
A proposito di responsabilità omissive: in questo tempo – tre anni ormai – i “fratelli maggiori”, tu tra questi, forse avrebbero dovuto levare la voce.
Io non ho condiviso tempi, modi e approdo della scissione del Pd, ma è innegabile che essa ha a che fare con quel deragliamento rispetto al progetto originario, nel solco dell’Ulivo.
Di più: i politici che a te facevano riferimento sono stati e sono i più organici sostenitori del corso renziano. Sin da quando, ancor prima dell’ascesa di Renzi, si qualificarono come “montiani del Pd” (nelle politiche economiche e sociali (fiscal compact compreso), come sostenitori di una democrazia d’investitura che concentra il potere nel capo (leader e candidato premier), inclini a spingere la semplificazione del sistema politico sino al bipartitismo e dunque a fare del Pd il partito unico del centrosinistra, disegnando la “cultura della coalizione”.
Quella inopinata accelerazione (“il Pd non fa alleanze”) che tu stesso patrocinasti nel 2008 e che fu la causa prossima della caduta del secondo governo Prodi.
Oggi siamo dentro una emergenza che conferisce senso e valore al tuo accorato appello alla responsabilità e all’unità del centrosinistra. Ma davvero possiamo immaginare di ricostruire un centrosinistra competitivo e di governo non subalterno ai valori altrui – un’impresa di lunga lena -senza una revisione critica e autocritica dei paradigmi economici, politici e culturali (vedi l’ultimo libro di Mauro Magatti sul “Cambio di paradigma“) che ci hanno ispirato e dei quali il corso renziano è solo l’estremo epilogo?
Al riguardo anche io sento il dovere di una onesta autocritica. Un solo esempio. Anche noi prodiani contribuimmo a esaltare le primarie (di coalizione, ma anche di partito).
Lo facemmo per due ragioni.
Una contingente: dare a Prodi, che non aveva un suo partito, legittimazione e forza, affinché non fosse ostaggio dei volubili umori e dei calcoli dei capi partito. Come poi si è visto, non è bastato.
Una ragione più strutturale: già allora i partiti erano malmessi e screditati, governati da oligarchie autoreferenziali. Ma ora chi vince le “primarie” (di partito) si trascina dietro una maggioranza personale (più che politica) blindata negli organi di direzione politica e per quattro anni (una eternità) è inamovibile anche se inanella una sequela di errori e sconfitte.
Esattamente il caso del Pd.
* deputato del Pd
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