Editoriale

Caro Martella, fu un peccato, ora è un’ideologia

Caro Martella, fu un peccato, ora è un’ideologiaAndrea Martella, Sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega all'Informazione e all'Editoria – LaPresse

Tagli all'editoria L’aggravante sta nella lettura della disinvolta manovra di bilancio. Dove tra i molti beneficiari non si trovano proprio quei giornali che operano lontano dalle dinamiche spietate del mercato: da il manifesto, a l’Avvenire, a decine di fogli locali e associativi

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 23 dicembre 2020

Dopo la legge del 1981 n.416, che riformò l’editoria negli anni burrascosi della vicenda Rizzoli- Corriere della Sera all’ombra della loggia P2, si arriva al giorno fatidico del calendario: il 7 agosto 1990. Quando fu approvata la legge n.250, che introduceva i contributi diretti ai giornali, secondo criteri – in verità- piuttosto laschi. La data, però, è importante. Il 6 dello stesso mese d’estate era stata varata la l.223 (Legge Mammì, l’allora ministro competente).

La legge Mammì legittimò l’oligopolio televisivo di Silvio Berlusconi. Unico paese al mondo -insieme al Messico- un soggetto privato poteva essere proprietario di tre canali nazionali, a differenza di tutti gli ordinamenti dell’occidente mediatico. La decisione dura e cinica del pentapartito diretto da Giulio Andreotti aveva portato alle dimissioni di ben cinque ministri della sinistra democristiana, tra i quali l’attuale presidente della repubblica Sergio Mattarella.

Ecco che ventiquattro ore dopo, a mo’ di asimmetrico contentino, si dava un po’ di linfa ai giornali. Poco davvero, ma qualcosa.
La parabola di quello che si chiama ora fondo per il pluralismo e l’innovazione cominciò così. E adesso, sotto l’egida di un governo assai diverso, il medesimo fondo rischia di scemare. In base alla normativa vigente, voluta con una caparbietà inquietante con la l.145 (articolo 1, comma 810) del 30 dicembre 2018 dall’ex sottosegretario pentastellato Vito Crimi, il meccanismo immaginato nel ’90 viene ad esaurirsi in un triennio.

Il puntuale editoriale di Norma Rangeri su il manifesto di ieri chiarisce assai bene le cose. Se è vero, come usa ripetere il sottosegretario con delega Andrea Martella, che nel decreto “ristori” approvato recentemente dal senato l’annata contabile 2021 è fatta salva, il décalage inizia – allo stato attuale- nello stesso 2021 e, nel 2022, il risveglio vedrà le risorse dimezzate. Chiunque abbia una minima esperienza gestionale sa che il mondo bancario non è popolato da benefattori. Se una norma prevede l’esaurimento dei proventi pubblici non saranno accordati né prestiti né fidi. O no?

Eppure esistevano emendamenti, pur accompagnati dal favore del relatore Stefano Fassina e dello stesso sottosegretario, finiti nel cassetto nel finale di partita. Già, il tema dell’informazione non è una priorità e la malevolenza si mescola ad una tradizionale colpevole sottovalutazione.

Nemmeno regge la tiritera del Mov5Stelle su eventuali privilegi accordati a talune testate. Già nel 2012 -con la legge 103- e soprattutto nel 2017 con la l.198 (e successivo decreto n.70) i criteri di assegnazione dei contributi erano stati improntati a maggior rigore.

Si può e si deve andare avanti con coraggio. Ma i tagli sono solo un colpo al cuore. Aggravano e non risolvono. Tra l’altro, da quando in era Berlusconi- Tremonti (finanziaria del 2010) fu eliminato il diritto soggettivo delle testate a ricevere il sostegno dello stato, ogni annata è una stazione di una ingloriosa via crucis.

L’aggravante, a fronte delle speranze create dall’età giallorossa, sta nella lettura della disinvolta manovra di bilancio. Dove tra i molti beneficiari non si trovano proprio quei giornali che operano lontano dalle dinamiche spietate del mercato: da il manifesto, a l’Avvenire, a decine di fogli locali e associativi. Si trova, invece, un curioso comma su una regalia di smartphone con due abbonamenti a giornali incorporati per le persone sotto un certo reddito. Peccato che, con la Svezia, siamo il paese che ha cellulari e affini a go go, mentre siamo carenti di banda larga.

Così è andata, con testo blindato e inemendabile nell’aula della camera. Né al senato sarà possibile riaprire alcunché. Ci riflettano i costituzionalisti: il bicameralismo in Italia è un ricordo del passato. Tuttavia, domani è un altro giorno. E un pur ingenuo ottimismo permette, comunque, di vivere.

È lecito attendersi un ravvedimento operoso: con il prossimo decreto (cosiddetto) milleproroghe. E poi, finalmente, con una riforma degna di questo nome. Del resto, come ha sottolineato il segretario della federazione della stampa Raffaele Lorusso su queste colonne, i rischi sono ormai numerosi: rinvio della legge sulle querele temerarie, traccheggiamento sulla Rai, mancata entrata in vigore del’equo compenso, crisi vertiginosa dell’istituto previdenziale dei giornalisti. In un contesto di disoccupazione, di precariato, di mancanza di tutele per gli esodati.

Caro Martella, c’è posta per te.

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