Fare i conti in tasca ai governi non è mai cosa semplice, eppure ci sono delle evidenze che non richiedono un computo così complicato e restituiscono la fotografia di un fallimento annunciato. Gli scienziati e gli accademici del gruppo Energia per l’Italia, coordinato dal professore emerito dell’Università di Bologna Vincenzo Balzani, hanno fatto presto a tirare le somme. I numeri non sbagliano. Calcolatrice alla mano, con il decreto Aiuti quater del 10 novembre si va in una sola direzione: «I 63,5 miliardi di euro stanziati in Italia per combattere il caro-energia – avvertono gli esperti – costituiscono nuovi sussidi alle fonti fossili e vanno quindi ad aggiungersi ai 13 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi (Sad) già censiti nel 2020 dall’allora Ministero dell’Ambiente».

Con il governo Draghi, stando al report pubblicato da Confindustria, sono stati stanziati in totale 54,4 miliardi di euro. La manovra ha richiesto «ben 8 provvedimenti legislativi in soli 9 mesi, con interventi diretti, volti a contenere la spesa per energia elettrica, gas naturale e carburante, e misure indirette».

A questi si aggiungono i 9,1 miliardi di euro previsti dal dl approvato dal nuovo governo. Da qui il totale di 63,5 miliardi. «Quelli stanziati con il dl Aiuti quater sono in buona parte sussidi alle fonti fossili», chiariscono da Energia per l’Italia. Nel corso degli anni, più della metà dei Sad è consistita in finanziamenti alle fonti fossili. È stato così nel 2019 con 15 miliardi su 24,5 di Sad e nel 2020 con 13,1 miliardi su 21,6. I dati sono riportati nel «Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli» pubblicato annualmente dal Mite. Si tratta di fondi erogati sia in modo diretto che indiretto, ovvero attraverso esenzioni fiscali, crediti di imposta o riduzioni di aliquote.

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I conti per Legambiente non sono corretti, i Sad sarebbero di più: rispettivamente 35,7 miliardi di euro nel 2019 e 34,6 miliardi nel 2020. Il nostro Paese peraltro è in ritardo nella pubblicazione del Piano di uscita dai sussidi ambientalmente dannosi. Lo si attendeva entro la metà del 2022. E lo si attende ancora. Il Mite nel frattempo assicura: «I lavori di analisi sono già cominciati e il piano permetterà di eliminare i Sad sviluppando al contempo, quando necessario, criteri compensativi compatibili con la transizione ecologica, l’obiettivo dell’azzeramento netto delle emissioni climalteranti e la protezione dell’ambiente. In casi specifici, alcuni sussidi ambientalmente dannosi potranno già essere cancellati a breve». Il tempo però scorre e le scelte vanno in tutt’altra direzione.

«L’Italia, con il dl Aiuti quater – spiegano gli scienziati di Energia per l’Italia – ha stanziato 9,1 miliardi di euro di nuovi sussidi alle fonti fossili e ha previsto di mettere a disposizione del sistema produttivo 15 miliardi di metri cubi di gas in 10 anni, quando per produrre l’equivalente in energia elettrica si potrebbero installare 65 gigawatt di fotovoltaico in soli 3 anni, come proposto dall’associazione confindustriale Elettricità Futura, senza dover ricorrere ad alcun tipo di finanziamento pubblico e, soprattutto, riducendo le emissioni di gas climalteranti».

L’appello è che si inverta la rotta. Secondo gli esperti sono innumerevoli le ragioni per farlo: «I sussidi alle fonti fossili sono economicamente inefficienti e distorsivi del mercato; gravano sui bilanci pubblici e costituiscono un onere per i contribuenti; sono dannosi per l’ambiente; sottraggono risorse che potrebbero essere destinate ad altri finanziamenti pubblici, siano essi per la ricerca sull’energia pulita, l’innovazione o la sicurezza sociale».

La ricetta per far fronte al caro-energia resta ancorata ai sussidi dannosi per l’ambiente, ma – sottolineano gli accademici – «lo stesso Mite, utilizzando il modello Ermes, ha stimato che impiegando i fondi dei Sad in parti uguali per incrementare gli attuali risparmi di bilancio, sovvenzionare le fonti rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica del settore industriale, Pil e occupazione crescerebbero rispettivamente dello 0,82% e del 2,3% mentre le emissioni diminuirebbero del 2,68%».

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Ciò che non si racconta ma che pesa tragicamente sul bilancio pubblico sono i costi sanitari e sociali dell’inquinamento atmosferico. L’Italia – secondo il rapporto del Fondo monetario internazionale del 2021 – si è collocata nel 2020 al primo posto tra i paesi europei per morti causate dai combustibili fossili, con 36.570 decessi. La conclusione a cui è giunto il Fmi è univoca: «Il tempo è essenziale – si legge – in assenza di un drastico taglio dell’uso di combustibili fossili nel prossimo decennio, il pianeta sarà bloccato dai rischi di instabilità pericolose e irreversibili nel sistema climatico globale». Tra il 1980 e il 2020 il nostro paese ha subito danni da eventi climatici estremi pari a 200mila euro per chilometro quadrato. Tra il 2005 e il 2014 si sono registrate perdite tra l’1,5% e il 2,5% del Pil.

Secondo l’ong Greenhouse Gas Management Institute Ghgmi, l’Italia è tra i paesi con maggiori costi sanitari derivanti dall’uso del gas naturale negli impianti termoelettrici, con 2,17 miliardi di euro. Sono state 2.864 nel 2019 le morti premature per l’uso di energia prodotta da gas naturale, 15.000 i casi di impatti respiratori su adulti e bambini, oltre 4.100 ricoveri ospedalieri e più di 5 milioni di giorni lavorativi perduti a causa di malattie.

La Società italiana di medicina ambientale stima che una sola centrale a carbone produca 4 milioni di tonnellate di CO2, con un costo in termini di mortalità pari a 960 persone. «Le misure finora adottate – sostiene il gruppo Energia per l’Italia – finiscono per far dipendere ancora di più famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni dal mercato oligopolistico del gas, causa esso stesso della crisi che si vorrebbe arginare con i sussidi, e che da questo circolo vizioso trae linfa per prolungare il suo ciclo di vita. Non è ancora troppo tardi per invertire la rotta».