L’Africa incide solo per il 3% delle emissioni di gas serra, eppure si calcola che fino a 700 milioni di africani potrebbero dover lasciare i luoghi in cui vivono a causa di alluvioni e carestie. Eppure il continente è l’ultima frontiera dell’esplorazione petrolifera, carbonifera e del gas, come spiega il rapporto della Ong tedesca Urgewald, a cui hanno contribuito varie organizzazioni internazionali, compresa l’italiana ReCommon. Ben 48 su 55 dei paesi africani sono al momento oggetto di nuovi progetti estrattivi, per buona pace degli Obiettivi di Parigi di mantenere il riscaldamento del Pianeta entro la soglia di 1,5 gradi. E in barba a quanto raccomandato con urgenza dall’Agenzia Internazionale dell’Energia di non investire più da subito in nuovi progetti fossili, se si vuole centrare l’obiettivo climatico.

DAL 2017, SONO STATE assegnate nuove licenze per sfruttare giacimenti di petrolio e gas che coprono una superficie di 886 mila chilometri quadrati, un’area più grande di Italia e Francia messe insieme. In Egitto, dove è alle battute finali la COP27, sono attive 55 compagnie del settore estrattivo, con l’italiana Eni a fare la parte del leone. Insieme alla britannica BP e alla statunitense APA Corporation, nel periodo 2020-22 ha investito 1,744 miliardi di dollari nella ricerca di nuovi pozzi di petrolio e di giacimenti di gas, facendone il secondo paese ricettore in Africa.

IN TUTTO IL CONTINENTE, NEL 2021 ENI è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività. Non a caso il 59 % della produzione globale del cane a sei zampe arriva dall’ Africa. L’aumento previsto di 1,32 miliardi di barili negli anni a venire da parte di Eni, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022, farà sì che le emissioni derivanti saranno addirittura il doppio rispetto a quelle registrate ogni 12 mesi in Italia. Solo la Sonatrach algerina dedica più fondi all’attività di esplorazione.

TRA I 14 PAESI AFRICANI DOVE IL CANE a sei zampe è presente, oltre al già menzionato Egitto, ci sono Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, dove la società fondata da Enrico Mattei è attiva da decenni. Ma è in fortissima crescita la presenza di Eni anche in Angola e Mozambico. Nel primo Paese, dal 2018 a oggi ha effettuato numerose scoperte, arrivando a formare un consorzio con la BP, denominato Azule Energy, che dovrebbe produrre 200 mila barili di petrolio da riserve stimate per un totale di due miliardi di barili. Per dare un ordine di grandezza, il Centro Olio di Viggiano, in Basilicata, che processa l’oro nero che arriva dal più grande giacimento su terra ferma d’Europa, ormai non arriva oltre gli 80-90 mila barili al giorno. Entro il 2026, inoltre, in Angola si arriverà a produrre sei miliardi di metri cubi di gas l’ anno.

E IL GAS E’ DI CERTO IL BUSINESS più fruttuoso in Egitto, dove il magi-giacimento di Zohr scoperto nel 2016 è la punta di diamante, ma anche in Mozambico. Eni è già attiva con i due progetti Coral South e Mozambique LNG, ma sta spingendo per aggiungere alla corona il gioiello di Rovuma LNG. Valore stimato 30 miliardi di dollari, con tanto di realizzazione di un impianto su terraferma per il processamento e l’export del gas proveniente da 24 pozzi sottomarini. Ma proprio nella regione interessata dall’attività di Eni e della multinazionale francese Total è in corso un’insurrezione armata guidata dal gruppo Al-Shabaab, che dal 2017 ha causato oltre 4 mila vittime e 800 mila sfollati. Da luglio scorso c’è stata una forte impennata degli attacchi, con 120 azioni e almeno 200 morti, tra le quali la suora comboniana Maria De Coppi, uccisa nel villaggio di Chipene.

OLTRE CHE NELLE AREE SEGNATE da conflitti, le big del fossile si stanno spingendo anche in regioni ad altissimo pregio naturalistico. La canadese ReconAfrica è in fase di esplorazione nella Kavango Zambesi Transfrontier Nature Conservation Area, che comprende territori di Angola, Botswana, Namibia, Zambia e Zimbabwe ed è abitata da oltre 200 mila persone. Le comunità locali rischiano di perdere i loro mezzi di sostentamento, qualora il progetto della ReconAfrica dovesse andare avanti.

SITUAZIONE ANALOGA IN UGANDA, dove si sta provando a costruire il più grande oleodotto riscaldato del Pianeta, l’EACOP, con in prima fila l’immancabile francese Total. I giacimenti da cui attingerebbe la pipeline si trovano nei pressi del Murchison Falls National Park, un paradiso sotto attacco; così come ancor prima della posa di un solo tubo hanno già subito soprusi e violazioni le comunità che si trovano sul lungo tragitto (1.500 chilometri) dell’oleodotto.

SUL FRONTE CARBONE, IL PIU’ INQUINANTE dei combustibili fossili, si prevede l’apertura o l’espansione di 70 miniere, ben 49 in Sud Africa, il Paese africano più dipendente dalla polvere nera. Tutte queste opere sarebbero difficilmente realizzabili senza il sostegno finanziario di fondi e banche private. A tutto luglio 2022, oltre 5 mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa per 109 miliardi di dollari. Ben 12 fanno capo al fondo di investimento statunitense BlackRock, che a Eni dedica 958 milioni del suo ricco portafoglio.

TRA GLI ISTITUTI DI CREDITO SONO ANCORA due soggetti a stelle e strisce a dominare: Citigroup (5,591 miliardi) e JPMorgan Chase (5,093 miliardi). Ma la finanza privata italiana non sta a guardare, al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica sono ben presenti anche i due campioni del mondo bancario italiano, UniCredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente. Facendo riferimento, tra i tanti, ai casi sopramenzionati, parliamo di 160 milioni di dollari da parte di UniCredit e di 110 milioni da parte di Intesa (tramite la incorporata Ubi banca) al progetto Coral South FLNG di Eni in Mozambico. E potrebbero essere in rampa di lancio per finanziare i progetti della joint-venture Azule Energy in Angola. A conferma che la corsa ai fossili non si ferma, soprattutto in Africa.