Carne coltivata, ragioniamo sui pregiudizi
Nei giorni scorsi è stato approvato in via definitiva dal Parlamento il disegno di legge presentato dal governo che proibisce la produzione, promozione e commercializzazione di alimenti e mangimi isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati. Cioè della carne coltivata.
La coltivazione di tessuti animali in laboratorio è una attività che va avanti da tempo. Soprattutto, almeno finora, per scopi medici come produzione di lembi di pelle utilizzabili dai chirurghi plastici oppure per fare passi avanti nella ricerca con l’obiettivo di arrivare a riparare o sostituire tessuti o organi lesionati, soprattutto in ambito cardiovascolare o neurologico. Adesso, però, c’era la possibilità concreta di ritrovarci nel piatto bistecche o spezzatini coltivati in bioreattori.
Molti hanno alzato il ciglio e la voce, per evidenti (e magari anche comprensibili) motivazioni economiche. Spesso mascherate, tuttavia, da fumosi riferimenti alla salute dei cittadini, alla qualità dei nostri alimenti tradizionali e alla nostra cultura gastronomica. E perfino alla nostra sovranità alimentare, sulla quale vigila attento il ministro Francesco Lollobrigida. Quando il governo aveva presentato questo disegno di legge per un po’ di tempo il tema aveva occupato i mezzi di comunicazione dando origine a prese di posizione perentorie e assolutistiche, in un senso e nell’altro.
Ora che la legge è stata approvata potremmo provare a ragionare su alcune delle perplessità sollevate (rispetto delle tradizioni alimentari, svilimento della cultura culinaria, estraneità dei nuovi cibi, ecc.). Si tratta, in realtà, di questioni che le società umane hanno già affrontato diverse volte nel corso della loro storia. I piatti tradizionali, quelli sui quali si basa una parte importante dell’identità e della cultura dei popoli sono in ogni parte del mondo, e non solo in Europa e nell’area mediterranea, il risultato di un processo di contaminazione e di stratificazione di ingredienti, di gusti, di sapori, di aromi e di abitudini provenienti da molte parti del mondo. Gli alimenti viaggiano in ogni dove portati con sé da migranti, soldati, commercianti,missionari, turisti e studenti. Lo hanno fatto e lo continuano a fare, visto che l’umanità ferma non lo è stata e non lo sarà mai. Senza trascurare il loro ruolo nella costruzione di una identità locale, occorre non dimenticare che questi piatti e queste scelte gastronomiche sono fluide e mutevoli nel tempo. E non saranno certo alcune leggi a imbalsamarle per i prossimi secoli…
VOGLIAMO FARE QUALCHE ESEMPIO DI PIATTI oggi tradizionali e nello stesso tempo debitori di importanti apporti stranieri? Due per tutti: la minestra di riso e zucca e la polenta e fagioli. Dalle mie parti la minestra di riso e zucca è un irrinunciabile piatto autunno-invernale che conforta non solo il palato, ma anche lo spirito con il suo splendido colore giallo aranciato. Ebbene, il riso e la zucca hanno compiuto un lungo giro per il mondo, prima di diventare prodotti tipici nostrani. Il riso, ad esempio, era sì conosciuto dai Romani, ma utilizzato sostanzialmente come costosa medicina e spezia riservata ai ricchi. Proveniente dall’oriente, furono gli Arabi prima dell’anno 1000 ad introdurlo nel bacino del Mediterraneo e ad avviarne la coltivazione. In Italia le prime risaie datano dalla fine del 1400 e oggi la pianura padana ospita produzioni di eccellenza, anche qualificate con i marchi DOP e IGP.
Prima che la zucca del genere Cucurbita (quella oggi ritenuta tipica di Chioggia, per dire) arrivasse dall’America nel XVI secolo, portata a casa dagli invasori europei, le zucche disponibili nel vecchio continente erano quelle del genere Lagenaria, commestibili solo immature, quando sono simili a grossi zucchini. Che diventano però secche e vuote all’interno a sviluppo completato. Non per caso venivano utilizzate soprattutto come vasi e contenitori per alimenti e bevande. Niente a che vedere con la polpa aranciata della zucca Cucurbita che, dopo cottura, è gradevolmente morbida e dolce.
Polenta e fagioli è l’altro must della tavola italiana, soprattutto nelle regioni settentrionali. La polenta è quasi per definizione quella di mais giallo e, nel trevigiano e nel rovigotto, anche bianca. Ma non è sempre stato così. Il mais americano, maggiormente produttivo, sostituì gradatamente a partire dalla metà del Settecento le coltivazioni di miglio, con il quale si preparava la polenta, e di altri cereali minori destinati all’alimentazione contadina. Ma all’atteggiamento di rapina e al senso di superiorità dei colonizzatori sfuggì un particolare importante: le popolazioni indigene del centro America avevano imparato che il mais andava macerato e cotto assieme a un po’ di cenere per migliorarne le qualità nutrizionali. Senza questo fondamentale passaggio una alimentazione monotona e quasi esclusivamente a base di polenta di mais, per secoli la regola tra le popolazioni contadine e povere, non consente di assimilare correttamente la niacina, una importante vitamina. Il fatto è che la mancanza di niacina produce una grave malattia come la pellagra. Fino agli inizi del Novecento la pellagra, patologia che coinvolge la cute (“pelle agra”), l’intestino e il sistema nervoso, mieté migliaia di vittime e riempì i manicomi di poveri diavoli che mangiavano anche un paio di chili al giorno di polenta, ma niente altro.
E i fagioli? I nostri borlotti, pregiatissimi quelli del bellunese, e i bianchi di Spagna, grandi e polposi, sono stati importati ancora una volta dal continente americano. Sostituirono i più piccoli e meno produttivi fagioli dall’occhio, a loro volta di origine africana, coltivati da Greci e Romani e che nel Medioevo erano alla base della dieta delle classi povere.
DUNQUE PER ALMENO DUE PIATTI TRADIZIONALI siamo debitori degli Arabi e dei popoli nativi americani. Potremmo continuare, constatando come anche il kebab di origine mediorientale, quando è arrivato in Europa al seguito dei turchi immigrati in Germania per lavorare nelle fabbriche tedesche (la comunità turca in Germania supera oggi il milione e mezzo di persone), si è adattato ai nuovi consumatori europei sostituendo le salse tradizionali piccantissime come l’harissa a base di peperoncino con altre più gradite ai palati occidentali (maionese, ketchup, ecc.).
La diffidenza verso alimenti nuovi e ingredienti insoliti è comprensibile. È stato così nei secoli passati anche per il pomodoro (oggi considerato il re della cucina italiana), la patata e molto altro.
PER RITORNARE ALLA CARNE COLTIVATA, quello che preoccupa invece è che la disponibilità di questo alimento (ma anche di insetti allevati come fonte proteica) probabilmente dipenderà ancora una volta dalle regole nefaste della globalizzazione: industrializzazione spinta dei processi produttivi con l’utilizzo di tecnologie sofisticate e conseguente concentrazione di capitali. Con le problematiche e i rischi generati dagli allevamenti intensivi che già conosciamo: diffusione di batteri e funghi patogeni con l’ovvia e inevitabile necessità di trattamenti sanitari, sfruttamento delle risorse terrestri e marine per alimentare gli insetti allevati, dubbi sugli effettivi vantaggi ecologici di queste nuove produzioni, ecc. Il tutto localizzato in Paesi dove i costi sono concorrenziali. Insomma, saranno anche novel food, ma lo scenario già noto sembra per molti versi cambiare di poco. Avremo insomma a disposizione alimenti sempre più lontani dai processi naturali di produzione. Alimenti oggi definiti ultra-processati e il cui consumo, da tempo in grande espansione, è correlato con l’aumento delle patologie croniche e degenerative (obesità, diabete, malattie cardiovascolari, tumori).
INFINE, NON L’HO ANCORA SENTITO DIRE, ma sicuramente il tema verrà fuori: la carne coltivata e la farina di insetti sono necessarie per ridurre la fame nel mondo e per rispondere in modo sostenibile alle crescenti richieste di proteine di elevata qualità nutrizionale che vengono da Paesi che innalzano il loro tenore di vita. Va bene proseguire la ricerca a scopi medici sulla coltivazione di cellule. Tuttavia, vorrei sommessamente far osservare che il problema della fame e della denutrizione, in continua drammatica crescita, non dipende dalla mancanza di cibo: quello prodotto oggi è ampiamente sufficiente per il doppio della popolazione mondiale.
Inoltre, ogni giorno solo in Italia vengono buttate più di 4 mila tonnellate di cibo, in Europa 50 mila (eurispes.it). Si tratterebbe piuttosto di mettere mano alle enormi disuguaglianze, alle guerre, alle conseguenze dei cambiamenti climatici, ai regimi dittatoriali, alla colonizzazione mascherata, al nostro stile di vita troppo energivoro e inquinante. Naturalmente anche ottimizzando la distribuzione delle derrate alimentari.
PER QUANTO RIGUARDA IL CIBO, LE ALTERNATIVE ci sarebbero già. Soluzioni semplici e economiche l’umanità le ha trovate da millenni: i piatti di cereali integrali e di legumi che stanno nelle tradizioni gastronomiche di tutto il mondo sono il modo più efficiente e sostenibile per garantire il soddisfacimento dei fabbisogni nutrizionali di tutti. Non per niente la FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) aveva proclamato il 2016 International Year of Pulses (anno internazionale dei legumi) mentre dal 2018 il 10 febbraio di ogni anno si celebra la Giornata mondiale dei legumi. Restiamo con i piedi per terra.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento