Alias

Carmine Gallone, soavità del cinema

Carmine Gallone,  soavità del cinema

Giornate del cinema muto A Pordenone, «L’ombra di un trono», del protagonista della storia segreta del cinema italiano e europeo

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 2 ottobre 2021

Può capitare, nei festival che vivono non sulla carta ma nel pulsare in sala di un programma, che un film solitario e marginale ne appaia il perno. Quest’anno a Pordenone potrebbe appunto capitare con un film forse non bello quanto Lubitsch, Ford e DeMille, né inserito in una rassegna ampia e rivelatrice come quella della Weimar rimossa di Ellen Richter, né erotico come l’Ita Rina di Machatý o affascinantemente esotico come i giapponismi del grande Protazanov e la rassegna coreana. Ci riferiamo a L’ombra di un trono (noto, per modo di dire, anche come All’ombra di un trono) di Carmine Gallone con Soava Gallone.

Esso introduce, nelle intenzioni del direttore Jay Weissberg, la rinviata rassegna sulla Ruritania, ma per chi scrive delinea soprattutto quella storia segreta del cinema italiano ed europeo di cui Carmine Gallone fu con Augusto Genina tra i massimi protagonisti. Già regista delle somme dive italiane (di Lyda Borelli diresse forse il capolavoro, una versione del fogazzariano Malombra superiore alla pur bella versione sonora di Mario Soldati con Isa Miranda), emigrò negli anni 20, alla crisi produttiva del cinema italiano, insieme a molti colleghi, verso le più prolifiche cinematografie tedesca e francese. E lì il suo percorso s’incontrò con la già affermata diva polacca Stanislawa Winawer, traduttrice di Sibilla Aleramo come Pola Negri s’ispirò a Ada Negri, ed essa ne divenne moglie e diva italiana come Soava Gallone.

Sappiamo (anche per gli studi dei non dimenticati Vittorio Martinelli e Alberto Farassino) che Gallone diventerà anche un grande regista sonoro, e come Farassino evidenzia nell’analisi dei suoi «manipolanti» interventi sul suono nei film ispirati all’universo del melodramma musicale, egli fu tutt’altro che quel mestierante di cui molta critica gli attribuì il marchio.

I veri conoscitori dell’opera italiana (oltre che cinefili), cioè Gianni Buttafava, Gianni Menon e Roberto Farina, restavano deliziati rispetto al modo in cui egli ricostruiva gli universi dei musicisti italiani: altro che la volgarizzazione che qualcuno contrapponeva alla cultura di un Visconti! Anche un originale storico della musica come Paolo Isotta restò attratto dai film-opera di Gallone.

Ma questa grande messinscena cinematografica è spesso rimasta in ombra rispetto alla sua «compromissione» con film «propagandistici» del fascismo, da Scipione l’Africano a Odessa in fiamme a Harlem (per il quale torneremo sulla recente scrupolosa ricerca di Luca Martera).
Orbene, su questi film vanno fatte molte puntualizzazioni, e proprio il film «di regime» per eccellenza, Scipione l’Africano, è opera di grande duttilità, diremmo una libera interpretazione dell’impronta propagandistica, e non a caso nel dopoguerra egli la rileggerà in un Cartagine in fiamme che è una magnifica eco dell’era della decolonizzazione africana.

La vera impronta sull’opera galloniana è proprio il rapporto col suono musicale: il finale della seconda versione di Casta diva ne è un sommo capolavoro, ma già in epoca muta i film del regista sono musicali nella gestualità stessa, e il citato Malombra ne è il vertice. E come non sottolineare che Carmine Gallone condivise questa passione con la moglie-attrice polacca, il cui nome si legge in polacco come «Stanisoava» e assume la variante italiana di Soava.

Lei abbandonerà il cinema dopo un solo film sonoro dello «specialista di Joinville» Jack Salvatori, ma continuerà a improntare dal fuori campo dei set il rapporto di Carmine col melodramma. Nei film muti (troppo pochi rimastici) il suo volto ha uno sguardo laterale, e in questo in programma a Pordenone è splendida la cornice da «doppio sogno» schnitzleriano, dal risveglio iniziale con gatta al riemergere dal sonno in epilogo.

E come non pensare, dato che lo vedremo nella versione uscita a Praga nel 1925, che purtroppo non poté incantare, come altri film melodrammatici, lo spettatore Franz Kafka morto l’anno prima (e sul cui rapporto col cinema scrisse Hanns Zischler, mentre Roberto Calasso ne evidenziò il profondo legame di tutta l’opera).

L’ombra di un trono ebbe un’estenuata vicenda produttiva e distributiva. Uscito in Francia in una versione più breve nel 1920, che già sposta l’ambientazione allusivamente britannica del libro nella fantasiosa Ruritania, uscì in Italia tra il 1921 e il 1923, nella precipitazione storica tra sogni rivoluzionari e presa del potere fascista. È immaginabile che un film così poco fiducioso nei regnanti (la regina madre punitrice sembra l’incarnazione dell’Elisabetta che John Ford renderà carnefice di Maria Stuarda), così diffidente del potere, abbia reso le uscite italiane del film sospette per la nascente dittatura. E si è salvato nell’ancora democratica Cecoslovacchia di Masaryk.

A Pordenone il film sarà il miglior perno ruritanico di un’Europa anni 20 destinata a un mai risollevantesi tramonto. E nel legame sponsale dei Gallone sottolineerà quella ricerca di secondi sguardi al femminile di cui è percorso l’intero programma.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento