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Carmelo Bene, un gioco al massacro tra meraviglia e nulla

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Recensione Dimone Giorgino "L'ultimo trovatore", una monografia che mancava sull’attore come lettore e scrittore di narrativa e poesia, sublimazione del suo lavoro sulla parola/voce

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 14 febbraio 2015

Abbiamo bisogno di maestri, oggi più che mai. Ma che siano «del disgusto»oppure «imperdonabili», e capaci – sempre – di trasmettere l’urgenza di una vita della cultura: dal momento che quello che farebbe la differenza, per così dire, non si dà in questo o quel discorso – tutto è antropologicamente cultura – ma semmai nell’atto paradossale e fondamentale di uscirne, dal discorso, con tutte le conseguenze del caso (e perciò fuori, anche, dal bisticcio tra ciò che si darebbe come cultura e ciò che la negherebbe).

Ora, a tutto questo chi – qui – scrive non può non rispondere che con un nome e un cognome: Carmelo Bene. Uno dei pochi di una tradizione intellettuale italiana in grado davvero di apparire, nonostante la morte, come un maestro adatto allo scopo e per di più in questi tempi, grazie a un’opera (multidisciplinare e indisciplinata) davvero postuma, proprio nel senso dato al termine da un Nietzsche.

Nello specifico, l’uscita di qualche mese fa del libro di Simone Giorgino, L’ultimo trovatore. Le opere letterarie di Carmelo Bene – editore Milella (Lecce), costo 25 euro – permette di fare il punto su quello che forse è il campo più spinoso e fra i meno investigati nell’opera del genio salentino: la letteratura.

Lo scrittore come attore della cultura

Partiamo dalla motivazione alla base dello studio: una monografia su Bene scrittore.

Si tratta di qualcosa che indubbiamente mancava, reso in termini tendenzialmente sistematici e che lo studioso riesce a organizzare in una struttura solida, alla fine molto valida (quindi, in concreto, un libro che val la pena leggere).

Val la pena però anche di insistere su una domanda, almeno prima di andare avanti. Come leggere Bene? Giorgino suggerisce: come uno scrittore autentico, e cioè considerando i suoi romanzi e la sua poesia come prove letterarie in tutto e per tutto. Vero, considerazione giusta e in linea con i precetti di una legittima ricezione critica che si può applicare a tutti i campi toccati da Bene. Ma non basta, il discorso va integrato e per questo rovesciato, quantomeno per doveri – per così dire – filologici. Come leggere Bene? Occorrere salvaguardare quanto da lui perseguito nella propria opera come prassi e fine: l’eccezione. Cosa vuol dire? Proviamo a ipotizzare: considerare la possibilità di una comprensione realisticamente emica, e cioè tendente al punto di vista dell’autore, utilizzando strumenti anche esterni al campo specifico di indagine – e però certo, se necessari.

Ecco, ragionando con riferimenti testuali alla mano, il consiglio che qui si vuol dare è quello di associare alla lettura di questo libro lo studio di Piergiorgio Giacchè uscito per Bompiani (l’edizione del 2007), nella misura in cui tale studio suggerisce la necessità di usare il termine attore in tutto quello che Carmelo Bene ha svolto, intendendo tale termine nella sua relazione con la retorica – dunque in modo diretto con il linguaggio – e in quanto modello intellettuale di operatività su ogni campo («attore della cultura», per usare la gran bella formula dello stesso Giacchè).

La biblioteca ideale

La prima parte del libro di Giorgino è particolarmente importante. In questa, si deve segnalare come lo studioso provi a fornire la «biblioteca ideale» del salentino, cioè introdurre quegli esempi di intellettuali le cui opere e pensiero sono stati fondamentali nello sviluppo dell’opera e pensiero di Carmelo Bene. Una idea assolutamente giusta.

Nel testo sono logicamente citati e spiegati i nomi che studiosi e appassionati di Bene conoscono, più – e qui è interessante – è introdotto il nome e il pensiero di Carlo Sini (possibilità resa tale tramite il lavoro svolto da Sergio Fava), in relazione all’interesse dimostrato dal Bene degli ultimi anni per la ricerca teoretica compiuta sul linguaggio dal filosofo (Bene ruba e fa teoreticamente sua la formula che Sini usa per rovesciare un assunto di Derrida: «scrivere il nulla» – il riferimento è alla prefazione di Sini a La voce e il fenomeno). E dalla lettura di tutto questo si può dire come venga certamente fuori l’incredibile cognizione delle potenzialità e dei limiti gnoseologici del linguaggio che Bene era in grado di maneggiare.

Tuttavia, se proprio proprio si vuol trovare una lacuna si potrebbe dire che fra i nomi influenti evocati da Giorgino ne mancherebbe uno: Giorgio Colli. I due – Bene e Colli – erano amici, e si trovano formulazioni teoriche fondamentali in Bene come la nozione di immediato che non possono non rimandare al lavoro dell’altro.

Ma si tratta comunque di qualcosa che non pregiudica la validità della riflessione di questa parte.

Tra meraviglia e nulla

La seconda e la terza parte del libro sono rispettivamente dedicate alle opere narrative e alla poesia di Bene. Sono parti sviluppate su piani giocoforza diversi, data la problematicità di definizione di narrativa per molta produzione letteraria di Bene, mentre si può certo dire come la poesia sia il campo per eccellenza della resa dei conti con il linguaggio del salentino. Soffermiamoci perciò su questa, come sublimazione del lavoro compiuto da Bene sulla parola/voce scritta.

La prima annotazione da fare riguarda certamente le opere considerate. Dopo un inizio in cui si accenna a certe liriche giovanili, Giorgino si occupa di Vulnerabile invulnerabilità e necrofilia in Achille, poi de ‘l mal de’ fiori e infine presenta, per la prima volta assoluta, una analisi critica del poema inedito Leggenda – per i curiosi: le carte del poema sono nel Fondo Bene, presso La Casa dei Teatri a Villa Pamphilj, Roma.

La seconda annotazione da fare relativa riguarda, invece, proprio il rapporto tra scrittura e filosofia. Partiamo dal titolo, eloquente: ultimo trovatore. Bene come trovatore è una definizione azzeccatissima, un rimando culturale che ben definisce il suo essere poeta-musicista, o – se si vuole – poeta della musica. A questo però ci si sente di aggiungere come la sua comprensione della poesia affondi proprio il coltello sui rapporti tra suono e senso con una profondità tale da investire questioni filosofiche di prim’ordine (di qui, quindi, la necessità di trattare la scrittura di Bene come «de-pensamento poetante», come ricorda Sergio Fava). Lo studio di Giorgino non manca di mettere in risalto questa profondità seppure – logicamente – non in modo sistematico. Qui, a mo’ di integrazione per il lettore – di Giorgino e poi, si spera, di Bene – ci si permette di aggiungere come un buon inizio possa essere quello di considerare la scrittura di Bene il risultato di una tensione tra meraviglia e nulla, due sponde da considerare nelle loro filosofiche declinazioni o, se si vuole, risonanze: senza nostalgie di origine o fine.

Un gioco che non è solo un gioco

Per concludere, una terza annotazione che ci si sente di dare, a integrazione della lettura del libro. Se lo scrittore è attore della cultura la sua scrittura non può non farsi gioco, dove però gioco è qualcosa da prendere molto sul serio. Anzitutto come legame al teatro – si pensi agli equivalenti francesi e inglesi, jouer e play – e questo può far capire come creazione e riscrittura siano due facce della stessa medaglia. Poi come legame con una certa idea di performance al di là dei generi e qui, in fondo, per provare a far capire intuitivamente la questione, si può pensare il gioco beniano nella scrittura come il gioco di un Larry Bird – Larry Legend non è stato forse il più grande cestista, ma era il basket (Pat Riley: «se mancassero due secondi e avessi bisogno di un tiro per vincere la partita, darei la palla a Jordan; se mancassero due secondi e avessi bisogno di un tiro per salvare la mia vita, darei la palla a Bird»). Da qui – infine – il gioco come metafora dell’esistenza, ciò che resta attraverso qualsiasi arte. «Gioco al massacro», Bene stigmatizzava. Qualcosa che non può non ricordare Colli e rimandare a una precisa percezione della sapienza: «Alla fine il riso, oppure? Sì, ma il riso è uno spasimo espressivo. I dadi sono gettati e ancora rotolano: eppure, quando si arrestano, mostrano qualcosa che non è un giuoco.»

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