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Carmelo Bene e i tempi del giornale

Cartelli di strada Gli accessi dai piani intermedi erano stati murati, nell’edificio che l’ospitava, e sia le rampe della scala sia l’ascensore collegavano soltanto i due ambiti di pertinenza del giornale: la tipografia […]

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 25 luglio 2020

Gli accessi dai piani intermedi erano stati murati, nell’edificio che l’ospitava, e sia le rampe della scala sia l’ascensore collegavano soltanto i due ambiti di pertinenza del giornale: la tipografia con impaginazione e stampa al piano interrato; la redazione e l’amministrazione al quarto piano. Per tutto il pomeriggio e parte della serata si procedeva a rilento e si reiteravano le riunioni; ma dalle nove in poi la macchina operativa del giornale, che per un motivo o per un altro chiudeva tardissimo, saliva di giri e il lavoro di ognuno, diventato febbrile, andava avanti ogni notte fino a mezzanotte e anche oltre. Fra i due piani l’attività era inversamente proporzionale: man mano che diminuiva in redazione, s’intensificava in tipografia. L’impianto elettrico che azionava l’ascensore col trascorrere delle ore si surriscaldava e la spia rossa di «cabina occupata» restava costantemente accesa. Sul pianerottolo s’incrociavano i redattori di turno che scendevano trafelati coi menabò ridisegnati per l’arrivo di agenzie fresche di telescriventi e i correttori che salivano per confrontare col caporedattore i periodi sintattici degli articoli di fondo che mal collimavano con le bozze uscite dalla fotocomposizione. Il ruolo professionale del proto, rigido responsabile dell’impostazione e confezione del giornale che assumeva forma in tipografia, rimandava alla figura allegorica del «portisculus», ovvero il capociurma.

Questi, battendo un grosso martello, scandiva il ritmo di vogata dei rematori disposti sui banchi delle trireme romane. Col battito più rapido il ritmo aumentava in vista della battaglia navale e immancabile ci tornava alla mente l’immagine stereotipata di Charlton Heston, incatenato alla voga e sferzato dall’aguzzino, nel film Ben Hur. Nel consueto bailamme, una sera tarda, dalla porta scorrevole dell’ascensore in discesa apparvero il direttore, il suo vice, il caposervizio alla cultura e… la figura solenne di Carmelo Bene, inaspettato visitatore in tipografia. Nello stanzone gli impaginatori, sotto gli occhi lampeggianti del proto (novello aguzzino) ossessionato dalle lancette dell’orologio, continuavano chini sui tavoli luminosi con taglierino e cera a incollare le strisciate dei titoli e dei pezzi sulle sei colonne delle dime. «Quanto conta il tempo in un giornale!», esclamò col vocione teatrale l’illustre maestro. E direttore e vice, premurosi come padri di famiglia, s’appressarono a informarlo sulle fasi di lavorazione marcate da una tabella di marcia più o meno tassativa. Colloquiando fra loro, ci giunsero smorzate le ultime parole di Bene, «pure qui scorre un tempo

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