Carlos Garaicoa, la violenza della Storia non è necessaria
Intervista Parla l'artista cubano e spagnolo di adozione: è ospite al Lerici Music Festival con la sua mostra «Memotopography». «'In Abismo' l’ho ideato mentre ero a Monaco, molto vicino all’appartamento dove ha vissuto Hitler. In quei giorni mia moglie era impegnata a provare l’opera di Messiaen, scritta e presentata nel 1941 nel campo di concentramento di Görlitz, quando il compositore era prigioniero. Mentre la ascoltavo, ho visualizzato le mani di Hitler, che lui muoveva come un direttore d’orchestra. Mi colpiva questa ambiguità, questa relazione tra potere ed arte»
Intervista Parla l'artista cubano e spagnolo di adozione: è ospite al Lerici Music Festival con la sua mostra «Memotopography». «'In Abismo' l’ho ideato mentre ero a Monaco, molto vicino all’appartamento dove ha vissuto Hitler. In quei giorni mia moglie era impegnata a provare l’opera di Messiaen, scritta e presentata nel 1941 nel campo di concentramento di Görlitz, quando il compositore era prigioniero. Mentre la ascoltavo, ho visualizzato le mani di Hitler, che lui muoveva come un direttore d’orchestra. Mi colpiva questa ambiguità, questa relazione tra potere ed arte»
Lavora nei punti di incrocio fra diverse discipline, Carlos Garaicoa, mantenendo sempre come riferimento il senso dei luoghi e delle architetture. Estrae le zone d’ombra e ne fa l’uscio su un precipizio. Per questo la sua poetica è profondamente politica. Occasione per ammirare la forza del discorso di questo artista, classe 1967, cubano di nascita e spagnolo di adozione, è al Lerici Music Festival, dal 26 luglio all’11 agosto. In tre sale della settecentesca Villa Marigola, si snoda infatti Memotopography, curata da Carlo Orsini in collaborazione con Galleria Continua. Sono installazioni sonore e scultoree. «Ho sempre avuto un rapporto stretto con i suoni, per questo mi è subito piaciuta l’idea di essere ospite di un Festival musicale», dice.
Una delle opere, Partitura, nasce come «sinfonia stradale», raccogliendo le esibizioni di musicisti di strada in mezza Europa. In Abismo, invece, mentre in un video si vedono le mani muoversi proprio come un direttore d’orchestra, si è immersi nella musica del Quartetto per la fine del tempo di Olivier Messiaen (il 26 sarà suonata dal vivo, con la partecipazione della moglie, la clarinettista Mahé Marty).
Come è nato questo lavoro?
È la seconda volta che lo presento dal vivo, dopo il debutto alla Fondazione Merz di Torino. L’ho ideato mentre ero a Monaco, molto vicino all’appartamento dove ha vissuto Hitler. In quei giorni mia moglie era impegnata a provare l’opera di Messiaen, scritta e presentata nel 1941 nel campo di concentramento di Görlitz, quando il compositore era prigioniero. Mentre la ascoltavo, ho visualizzato le mani di Hitler, che lui muoveva come un direttore d’orchestra. Mi colpiva questa ambiguità, questa relazione tra potere ed arte.
È perturbante entrare in un terreno in cui tragedia e meraviglia sembrano toccarsi…
Alla fine la bellezza è sempre un animale strano, che può contenere l’ombra di un grande corpo di violenza. Io ascoltavo questa musica bellissima, mentre cercavo di capire il giro della storia tragica del Novecento. Allora ho pensato al rapporto fra futurismo e Mussolini, tra il suo regime e la bellezza dell’architettura razionalista. E così mi sono apparse le mani di Hitler.
Nel frattempo, gli eredi di quei regimi e di quella storia sono molto forti in Europa.
Ci sono alcune coincidenze inquietanti che facciamo fatica a capire. Cosa può fare l’arte? Io credo possa essere un ponte verso la riflessione, non in modo didascalico sennò rischia di diventare propaganda, ma come una porta aperta alla libertà di pensare. In qualche modo deve prendere parte, ma non partito. Lo può fare per la sua speciale relazione tra pensiero e forma. Nei miei lavori non do risposte, ma lascio sempre uno spazio aperto, dove possiamo interrogarci.
In un altro lavoro, «Le radici del mondo», una fila di coltellacci sbucano da un tavolo, le lame sembrano formare uno skyline e i manici sono edifici. Come si legano queste opere così diverse?
Il lavoro parla della violenza, quella interrata nella Storia, e ogni volta il mondo trova quella sua radice che sembra inestirpabile. Non è una radice «naturale», è quella che abbiamo costruito in una infinità di tragedie. Non è casuale che sia un lavoro nato a ridosso della guerra in Ucraina. Quei coltelli portano in sé un valore di astrazione e allo stesso tempo di certezza. È la potenza delle arti visive, perché sempre funzionano in uno spazio di astrazione, in una apparizione connessa col mondo reale.
Quanto ha influenzato questo suo sguardo sul potere e sulla violenza, il fatto di aver vissuto in un paese come Cuba?
Noi cubani siamo cresciuti in una situazione di perenne tensione. Il regime vende un’idea di futuro che si schianta con la realtà. È qualcosa che viene dal comunismo sovietico e dell’Europa dell’Est, ma che si ritrova anche nel fascismo storico: l’idea dell’uomo nuovo, dell’ordine nuovo. Ma quando ci vivi dentro, ti accorgi che quell’idea non ha nessun riscontro con la realtà. È una contraddizione dolorosa, tra un futuro radioso e un presente che sacrifica tutto. A Cuba, per fare arte devi lavorare per metafore se vuoi sopravvivere, oppure ne fai un motivo di attivismo, rimanendovi però schiacciato e senza fiato.
Eppure, negli ultimi anni, proprio gli artisti hanno anticipato le proteste, coinvolgendo persino voci inaspettate come il cantautore Silvio Rodríguez. Cosa ne pensa?
È stato incredibile, tutti abbiamo pensato che qualcosa stesse cambiando davvero. Prima c’era stato Obama che ha portato un vento di euforia, internet ha permesso di comunicare e organizzarsi, le riforme sembravano in arrivo. Artisti e intellettuali sono stati i primi a scuotere tutti. C’è una lunga tradizione di cultura a Cuba, è un popolo colto e direi anche sofisticato, lo era anche prima della rivoluzione. E tanto più in questi sessant’anni grazie al sistema pubblico e gratuito di educazione. Credo che l’attivismo di questi anni sia stato l’ultimo tentativo di cambiare le cose da dentro e a cui il regime ha risposto mettendo gli artisti in galera, zittendoli o espellendoli dal Paese.
Lei vive in Spagna da molti anni. Come si definisce, un artista cubano? Un artista della diaspora? Un artista europeo?
Ho una lunga carriera in Europa, mi ha spinto a venire qui il desiderio di proiettarmi fuori dall’isola. Ma ho voluto mantenere con Cuba una relazione stretta, anche di intenso lavoro con giovani artisti all’Avana. È una sensazione strana quando si vive così tanto a lungo fuori dal Paese di origine, perché comunque apparterrai sempre al mondo da cui provieni, è impossibile tagliare le radici. Eppure, tutti sappiamo che si è cittadini solo del luogo dove scegli di vivere, dove paghi le tue tasse, dove cresce il tuo pensiero e formi la tua famiglia. Senti che stai contribuendo al luogo dove vivi, che hai una responsabilità sociale. Per questo sono cubano e sono spagnolo. E sono un artista: l’arte ti dà qualcosa di globale, rompe le nazionalità. Questa idea dell’identità nazionale ha anche un risvolto molto fascistoide. Dovremmo tutti sforzarci di essere cittadini del mondo.
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