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Carlo Ginzburg, riti sciamanici esportati in Friuli

Carlo Ginzburg, riti sciamanici esportati in FriuliSalvator Rosa, «Streghe e incantesimi», 1646

Storia medioevale Sulla scia dell’invito gramsciano a cercare le discrepanze fra cultura egemonica e subalterna, «I Benandanti» entrarono da protagonisti in un saggio di Carlo Ginzburg, datato 1966

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 1 novembre 2020

Diventato nel corso del tempo paradigmatico di una visione storiografica concentrata su un certo grado di autonomia della cultura popolare o subalterna, che sebbene esclusa dagli strumenti di produzione e diffusione istituzionale del sapere, vive tuttavia parallelamente o in modo sotterraneo accanto a quella dominante, il saggio che Carlo Ginzburg scrisse nel 1966, I benandanti Stregoneria e culti agrari fra ‘500 e ‘600 (appena riedito da Adelphi, pp. 311, € 24,00) deriva la sua fortuna anche dalla scrittura avvincente, e dalla ricchezza dei materiali trovati dall’allora giovanissimo storico negli archivi veneti e friulani.

Tra le sue mani erano capitati gli atti di processi condotti dall’Inquisizione, tra la fine del ’500 e la metà del ’600, contro quei protagonisti di un culto popolare – «benandanti» – i quali raccontavano apertamente di «uscire in spirito» alcune volte l’anno (nel periodo delle «tempora» del calendario liturgico), di notte, per combattere a colpi di rami di finocchio contro streghe e stregoni. Dall’esito positivo o negativo del combattimento sarebbero dipese la fertilità della terra e l’abbondanza dei raccolti o, al contrario, la carestia.

Col tempo, gli inquisitori riuscirono a piegare le confessioni degli imputati al modello classico della stregoneria, che la Chiesa aveva elaborato a partire dell’alto Medioevo, i cui ingredienti principali erano il patto con il diavolo, il sabba delle streghe, la profanazione dei sacramenti. Nella documentazione friulana Ginzburg rintraccia una «immediatezza» delle voci dei contadini, i cui racconti e le cui immagini non sono mai totalmente riducibili a quelle dei giudici. Tutto il libro è centrato sul tentativo di evidenziare questo «scarto» o «discrepanza» tra la parola dominante e quella subalterna, da cui l’autore ritiene di poter attingere «uno strato di credenze genuinamente popolari, poi deformato, cancellato dal sovrapporsi dello schema colto».

L’uscita del libro aveva coinciso con quel dibattito politico-culturale che aveva assunto la prospettiva gramsciana del carattere «progressivo» della cultura popolare e delle sue capacità di resistenza rispetto al progetto egemonico. I benendanti, in questo contesto, potevano ben rappresentare i vinti della storia, l’emblema di una «visione del mondo e della vita» – come Gramsci scrisse – subalterna, destinata a perdere ma riluttante a farsi schiacciare dal discorso dominante.

Negli anni Settanta, Ginzburg avrebbe sviluppato ancora questa prospettiva con la storia di Menocchio nel Formaggio e i vermi e, più avanti, il progetto dei Benandanti sarebbe poi stato ampliato in Storia notturna, dove lo stesso tema del sabba diabolico, che inizialmente Ginzburg riteneva un prodotto esclusivo della demonologia còlta, finisce per apparire intriso di temi e motivi mitico-rituali molto antichi e di amplissima diffusione: i benandanti, dunque, non sarebbero che una variante locale di un complesso sciamanico indoeuropeo, centrato su riti di morte e resurrezione, di discesa e risalita dagli inferi.

Nella postfazione che chiude la nuova edizione Adelphi, Ginzburg rivendica questa più ampia prospettiva: «L’idea che i benandanti e le loro battaglie notturne debbano esser considerati come una testimonianza straordinaria eppure unica, che si sottrarrebbe a qualunque possibilità di comparazione, mi sembra inaccettabile».

Ginzburg ragiona dunque di nuovo sul rapporto tra i contadini friulani e gli sciamani siberiani, una relazione che racconta di aver intuito già al tempo della sua originaria ricerca attraverso la mediazione del Mondo magico di Ernesto De Martino. Ma rivendica anche, in questo scritto, la gramsciana ispirazione originaria dell’intero suo percorso di ricerca, quell’invito a cercare gli scarti fra cultura egemonica e subalterna. Cosa tutt’altro che scontata: dopo la fine degli entusiasmi datati anni Sessanta-Settanta, la storiografia aveva infatti messo pian piano da parte l’interesse per il tema della cultura «popolare», sottolineando, anzi, il carattere mitologico del concetto stesso di popolo, dei richiami al carattere autonomo e magari «alternativo» delle sue pratiche e credenze, nonché alla loro antichità, persistenza o lunga durata.

Più volte Ginzburg venne accusato – da Dominick La Capra e da Perry Anderson, fra gli altri – di proporre una visione troppo propensa a insistere sulla matrice precristiana della cultura folklorica e sulla dicotomia scrittura-oralità, così come su quella potere-resistenza. Anche recentemente, lo storico delle religioni Gaetano Lettieri, in un saggio titolato La strega rimossa, ha imputato a Ginzburg di trascurare, per vizio ideologico, le influenze bibliche e cristiane della documentazione presentata nei Benandanti e in Storia notturna e anzi di intendere la Bibbia come mero strumento del potere e veicolo della sua violenza. Ginzburg, da parte sua, nega di aver mai attribuito «autonomia e purezza» alla tradizione folklorica.

Meno lontani di quanto appaia, i due autori insistono comunque sulle interazioni e sugli scarti fra livello egemonico e subalterno, sottraendo alla cultura dominante il potere di colonizzare effettivamente e senza margini l’immaginario delle classi subalterne. Da qui, dal dibattito suscitato dalla rilettura dei Benandanti, può emergere una rivalutazione della stessa categoria di cultura popolare, che depurata dai vecchi miti romantici o militanti, può tuttavia portare a scoprire non tanto sacche incontaminate di folklore o resistenza, quanto i momenti di incontro/scontro e ibridazione che mettono in rapporto egemonia e subalternità.

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