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Carl Schmitt, una svolta teorica, anzi un enigmatico avvertimento

Carl Schmitt, una svolta teorica, anzi un enigmatico avvertimentoFelix Nussbaum, «Locomotiva», 1936

Filosofi tedeschi In alcune conferenze di Carl Schmitt fra il ’43 e il ’44, un ridimensionamento delle sue posizioni «decisionistiche»: «La situazione della scienza giuridica europea», ritradotto da Quodlibet

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 25 ottobre 2020

Ambiguo e maledetto, ma altrettanto indubbio, il successo di Carl Schmitt ne ha oscurato la complessità. Concetti come quelli di dittatura, di potere costituente, di stato d’eccezione, fino alla celeberrima opposizione amico-nemico, sono diventati stabile patrimonio del lessico politico e filosofico; il successo di queste categorie, tuttavia, è andato di pari passo con una sclerotizzazione unilaterale del pensiero che le ha prodotte. Tutte infatti, vengono spesso fatte collassare sul momento della decisione, posto a origine e fondamento dell’ordine giuridico: momento centrale nell’impianto del giurista tedesco, ma che sarebbe bene non assumere a paradigma ermeneutico onnicomprensivo.

A ristabilire un’immagine di Schmitt meno unilaterale – ma non per questo meno radicale – contribuisce la recente riedizione della conferenza La situazione della scienza giuridica europea, Quodlibet, pp. 128 € 14,00), in una nuova traduzione (talvolta fin troppo precisa nel restituire il periodare tedesco) e con la meticolosa curatela di Andrea Salvatore, che a un ricco apparato di note affianca un’ampia postfazione. Già nella scelta del titolo, che preferisce il termine «situazione» al più generico «condizione» della precedente traduzione, il curatore sottolinea quella passione per la contingenza che contraddistingue il percorso intellettuale di Schmitt ben più di ogni forzata unitarietà – anche laddove quest’ultima venga estorta ex-post dall’autore stesso.

Pubblicato nel 1950
Tra queste pagine convergono infatti, come in una sorta di mise en abyme, le linee principali del pensiero di Schmitt e del suo sviluppo sussultorio e alterno, che riflette – d’altronde – gli sconvolgimenti di un’epoca: l’elaborazione e la prima pubblicazione dello scritto sono datate, infatti e non casualmente, in fasi diverse di quella che è una svolta radicale, tanto per la vita di Schmitt quanto per l’Europa. Il testo pubblicato nel 1950 riproduce – infedelmente, come chiarisce il curatore – una serie di conferenze tenute da Schmitt negli anni 1943-1944, fra la catastrofe bellica tedesca, l’interdizione all’insegnamento e infine la ratifica dei primi accordi per la creazione della futura Unione Europea. Se non «anni della decisione», certamente anni decisivi.

È in questo contesto che Schmitt mostra di voler compiere una vera e propria svolta teorica rispetto ad alcune posizioni precedenti, che talvolta sembrano identificare l’insieme del suo pensiero: una su tutte, il sorprendente ridimensionamento di quel «situazionismo decisionistico» che innervava i testi degli anni Venti e Trenta. Se in Teologia politica Schmitt scriveva che «l’autorità» non ha «bisogno di diritto per creare diritto», e se in un testo degli anni Trenta giudici e giuristi venivano definiti niente più che «collaboratori della volontà e dei piani del Führer», nella conferenza del 1950 è invece inaspettatamente proprio la «scienza giuridica» nel suo radicamento storico a venire elevata, sulla scorta di Savigny, ad «autentica fonte del diritto», mentre la corporazione (Stand) dei giuristi assurge a «comunità scientifica dei custodi del diritto».

Assumere come condizione di possibilità per un ordinamento giuridico il suo radicamento storico e, soprattutto, quella peculiare «riflessività» interna propria di ogni scienza, implica la revoca di quel primato decisionistico della volontà ordinatrice che, da scaturigine di ogni legittimità effettuale, sembra venir qui accostata a quel «legislatore motorizzato» in cui si rintraccia l’origine della crisi. Siamo di fronte, anche in questo caso come in quello del mago di Messkirch, Heidegger, a una «svolta» (Kehre)? Non sembra questa l’ipotesi del curatore, che nella significativa postfazione ricostruisce l’itinerario del pensiero di Schmitt, sostenendo come la continuità nel mutamento vada piuttosto rintracciata proprio in quella adesione alla contingenza, che rende la sua riflessione il vivente specchio del proprio tempo.

Un’ombra sul presente
Certo, in questa nuova posizione teorica di Schmitt non si può non vedere anche una certa dose di opportunismo; ma oltre a gettare una nuova, ambigua luce sull’autore, essa proietta un’ombra su questo nostro presente: perché se è nell’unità della scienza giuridica che Schmitt vede adesso l’unica garanzia adeguata per «un impero europeo», è nella sua «motorizzazione» – ossia nell’automatizzazione tecnocratica – che viene individuata una sua pericolosa distorsione. E davanti a questa diagnosi non possiamo non sentirci interrogati.
Mai come oggi, infatti, pare che nel processo di unificazione europeo alla politica e alla democrazia si contrapponga proprio lo schermo di un impianto giuridico sempre più automatizzato e di una classe burocratica divenuta autoreferenziale. Le intuizioni di Schmitt in questo testo suonano oggi come un enigmatico avvertimento, che pare quasi dimostrare la carsica e inaspettata ascendenza del suo pensiero anche nel dopoguerra.

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