Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, lettere sulla fatica di essere un genio
Carteggi Paziente del fondatore della psicologia analitica per due anni, il grande fisico avviò con lui un carteggio durato dal ’32 al ’57, che oggi vale più come indagine antropologica sulla cultura umana che come fuoco sulla realtà fisica e il funzionamento della mente
Carteggi Paziente del fondatore della psicologia analitica per due anni, il grande fisico avviò con lui un carteggio durato dal ’32 al ’57, che oggi vale più come indagine antropologica sulla cultura umana che come fuoco sulla realtà fisica e il funzionamento della mente
L’ultima impresa teorica pubblicata in vita da Carl Gustav Jung, il secondo volume di Mysterium Coniunctionis, uscì sessant’anni fa: era «una indagine sulla separazione e la sintesi degli opposti psichici nell’alchimia». Nell’inviarne una copia a Wolfang Pauli – il geniale fisico che era stato due decenni prima suo paziente, e che divenne in seguito un suo assiduo interlocutore – Jung inserì nella dedica una formula cara a Nicolò Cusano (nec nimis nec minus), come a sottolineare il nucleo di atteggiamenti e di idee che li univa da un quarto di secolo: il rigore intellettuale, l’inclinazione platonica, l’attribuzione di un valore universale alle simmetrie, la tesi della coincidenza degli opposti, il presupposto di unità sostanziale tra il mondo fisico e quello psicologico, l’idea che sussista un legame molto stretto tra l’inconscio, l’hintergundsphysik (il fondamento su cui poggia la fisica), le immagini simboliche che costellano i sogni e gli archetipi (il contenuto innato, arcaico e collettivo della mente umana; una sorta di schema generale del sentire, dell’immaginazione e del ragionamento).
Pubblicate in tedesco nel 1992 (poi in spagnolo, in francese e in inglese) le lettere tra Jung e Pauli arrivano ora in libreria, nella loro prima traduzione italiana con il titolo Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (a cura di Antonio Sparziani, con Anna Panepucci, traduzione di Giusi Drago, Moretti & Vitali pp. 392, euro 30,00). Benché le edizioni già presenti in Europa non facciano di questo volume una primizia assoluta, tuttavia l’autorevolezza degli autori e la profondità con cui affrontano i temi trattati potrebbe costituire da noi un deterrente, una sorta di argine, nei confronti di quella diffusa sotto-cultura di massa che ha trasformato la fatica e la ricerca intellettuale di questi e di altri grandi scienziati del Novecento in una sorta di melassa ammiccante, nella quale convergono l’astrologia e lo spiritismo, l’esotismo e il finalismo, la telepatia e la preveggenza, la numerologia e la divinazione, il misticismo e i pregiudizi contro la scienza. Valga – a questo proposito – il caveat espresso dallo stesso Pauli, in uno scritto del 1948: «Dal punto di vista della scienza moderna, la forma di immaginazione (archetipica) è senza dubbio da considerare una regressione a uno stadio arcaico»; per cui: «non bisogna cadere nell’errore di ritenere che i suoi prodotti siano verità scientifiche equiparabili a una solida dottrina».
C’è da chiedersi però quale possa essere oggi il contributo del carteggio alla discussione sul pensiero scientifico e sull’umanesimo, sul rapporto tra il corpo e la mente, sulla natura della psicologia e sul suo rapporto con le scienze «forti», sulla storia della cultura umana e sulle teorie della conoscenza. Sia la fisica contemporanea che la psicologia scientifica sembrano infatti aver superato da tempo i nodi che impegnavano questi due grandi scienziati nella prima metà del secolo scorso: la fisica, perché la riflessione sui fondamenti della meccanica quantistica (e sul ruolo determinante dell’osservatore, nel determinare il reale osservato) si è spostata in larga misura su interrogativi che riguardano ontologie molto più astratte (come quella, per esempio, che concerne la natura dello spazio-tempo quantistico); la psicologia, perché l’esplosione delle scienze cognitive (a partire dagli anni ottanta del secolo scorso) ha trasferito su un altro terreno l’indagine della psyché, dei suoi contenuti simbolici e/o sub simbolici, sottraendo al lavoro analitico, all’introspezione e all’archeologia culturale, una parte molto rilevante degli studi che riguardano la mente umana.
Ai giorni nostri, dunque, l’idea che mente e materia possano essere aspetti epifenomenici di un’unica realtà sottostante, in sé neutra (cioè: né fisica né mentale), può sembrarci un po’ ingenua, retaggio di una presunzione essenzialistica che non sentiamo più nostra. Così come pure l’idea, caldeggiata da Pauli, che tra la descrizione fisica e quella psicologica sussista una sorta di «complementarietà», analoga a quella che Niels Bohr introdusse nel 1927, per dar conto dell’impossibilità di osservare – nello stesso esperimento – sia gli aspetti ondulatori che quelli particellari della materia, alla scala atomica e sub-atomica. Analogamente, può sembrare oggi priva di senso, o di cogenza, l’idea che la sincronicità (il verificarsi di coincidenze significative, di natura non causale, in punti molto lontani dello spazio-tempo) possa integrare sotto il profilo logico ed epistemologico (come un tassello mancante, come un «quarto escluso») la triade canonica della meccanica classica, costituita dallo spazio, dal tempo e dalla causalità. Ognuna di queste idee si presenta oggi come il retaggio di un sentire datato, piuttosto che come l’embrione di un fecondo programma di ricerca.
ppure, meglio: studi di questo genere conservano il loro carattere di indagini antropologiche, monumentali, profonde e piene di fascino, che riguardano la ricchezza della cultura umana, le sue origini, i suoi riferimenti e le sue costruzioni, piuttosto che la realtà fisica o il funzionamento della mente. Di questo tipo, per esempio, è sicuramente l’analisi dell’alchimia (perseguita da Jung e condivisa da Pauli), come proiezione dell’inconscio collettivo sulla materia, nel tentativo di trasformarla.
Ed emerge anche, insieme a questo, un resoconto «in presa diretta» della fatica di esser un genio, delle ossessioni, delle compulsioni, dell’insicurezza e dell’ansia che si associa spesso al lavoro intellettuale, ai suoi massimi livelli. Nell’epistolario, Pauli ha un ruolo maggiore di quello che occupa Jung, sia per il numero delle lettere, sia per la quantità delle pagine, sia per l’emozione che accompagna ogni scritto, anche il più astratto. E nel ritmo incalzante degli interrogativi e degli argomenti affiora per venticinque anni la posizione specifica del paziente, nei confronti del suo terapeuta (anche se il rapporto effettivo di analisi era durato solo due anni, dal 1932 al 1934).
Così – anche quando erano venute meno le ragioni più urgenti della terapia (l’alcolismo, le risse, la depressione, legata anche agli strascichi del suicidio della madre, o alle difficoltà del rapporto con l’altro sesso) – Pauli continuava a sottoporre a Jung i suoi sogni; e non certo, o non solo, per alimentare un terreno comune di ricerca. Combattevano, in lui, due Pauli: quello estroverso/empirico/razionale/giudicante, legato alla figura del padre (un medico, poi docente di chimica e di fisica) e all’influenza del padrino (Ernst Mach, il grandissimo filosofo e fisico austriaco, capostipite dell’empirismo del Novecento) e quello introverso/intuitivo/passionale/creativo, legato alla figura della madre, all’infanzia e all’adolescenza. Fino all’ultimo, lo scontro tra queste polarità restò attivo nel suo carattere; e volle descriverlo alla fine lui stesso, a pochi anni dalla morte, in una «fantasia attiva sull’inconscio» (dedicata a Marie-Louise von Franz, allieva e collaboratrice di Jung, legata a Pauli da un rapporto molto intimo). Alla fine di questo breve racconto, quando il personaggio denotato come Io (lo stesso Pauli) si accinge a tornare nel suo «mondo maschile, tra la gente», risuona la Voce del Maestro (Jung?), che lo incoraggia alla congiunzione tra i sessi; e – per tranquillizzarlo – ingiunge alla donna: «Sii sempre benigna».
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