Caravaggio, “San Francesco in meditazione”, Roma, Palazzo Barberini

«Se bene à mandato a casa mia per una veste da cappuccino che gliela imprestai et un par d’ale»: per introdurre la mostra Orazio Gentileschi e l’immagine di san Francesco: la nascita del caravaggismo a Roma in corso a Palazzo Barberini (fino al 10 aprile; catalogo Officina Libraria, pp. 168, euro 25,00) non si può non ripartire dalle carte del celeberrimo processo seguito alla querela sporta da Giovanni Baglione contro Caravaggio, Orazio Gentileschi e altri loro amici, accusati di aver fatto circolare versi, anche scurrili, che offendevano lui e la sua opera. Quegli atti, custoditi all’Archivio di Stato di Roma e pubblicati fin dal 1881, sono esposti alla mostra, alla pagina in cui si legge quanto riportato, ovvero il passo della deposizione resa da Gentileschi il 14 settembre nel quale è citata una veste da cappuccino che Orazio aveva prestato al collega. A quella veste fa eco, alla mostra, un saio appartenuto al frate Mattia Bellintani, morto nel 1611 (l’abito si conserva a Milano, nell’Archivio Provinciale dei Cappuccini).
Quest’accento sulle verità delle cose, dei materiali e delle carte processuali, era necessario per inquadrare nel migliore dei modi il senso della rivoluzione naturalista innescata dal Merisi, presentata al pubblico attraverso un case study da manuale, ovvero un inedito dipinto del più caravaggesco tra i caravaggeschi: Gentileschi. La veste da cappuccino che Orazio aveva prestato a Michelangelo sei-otto mesi prima doveva servire a entrambi, con ogni verosimiglianza, per dipingere un san Francesco in abito da cappuccino, poiché nel momento in cui il naturalismo stava deflagrando nella pittura romana, Caravaggio e ancor più Gentileschi, dipingevano davvero, ostinatamente, dal naturale, con un modello che posava di fronte a loro, vestito da santo se necessario.
Orazio si confrontò con quel tema in numerose occasioni, e ora a Palazzo Barberini si possono ammirare, nella stanza al pianterreno in cui è allestita la mostra dossier, di fronte al saio seicentesco, tre redazioni del medesimo soggetto: ad affiancare simmetricamente il nuovo San Francesco in estasi riemerso nel 2021 (e acquistato dalla Galleria Benappi Fine Art, che ha meritoriamente finanziato il catalogo della mostra) sono due redazioni di un tema assai popolare a inizio Seicento, quello del San Francesco sorretto da un angelo (una proviene dal Prado, l’altra è nelle collezioni delle Gallerie Nazionali Barberini Corsini). E così, per una volta, Caravaggio fa da comprimario in una mostra sul movimento da lui avviato: di fronte a un San Francesco di Cigoli dello scadere del Cinquecento, attraverso il quale si misura bene lo scarto della rivoluzione naturalista, sull’altra parete breve della sala è il San Francesco in meditazione del Merisi (in deposito sempre a Palazzo Barberini). Questa tela è in genere ritenuta di una qualità leggermente inferiore rispetto all’altra versione di Santa Maria della Concezione, la chiesa dei Cappuccini a Roma (evocata in mostra attraverso una foto di Massimo Listri della celebre cripta). Ma sul confronto tra le due redazioni caravaggesche, già proposto in passato, non si è tornati in quest’occasione; altro è l’obiettivo della mostra.
I curatori, Giuseppe Porzio e Yuri Primarosa, hanno riunito un nutrito gruppo di studiosi per affrontare questo tema molto circoscritto da tanti punti di vista: l’ambizione, esplicitata nel sottotitolo della mostra, era anche quella di leggere in rapporto stretto la nascita del movimento caravaggesco con gli ideali di pauperismo che avevano mosso la secessione dei Cappuccini dall’ordine dei francescani. Secondo questo discorso, il linguaggio naturalista si sposava perfettamente con la raffigurazione di un san Francesco coperto da un povero saio, immerso nel silenzio e nel buio della pittura caravaggesca della prima ora.
Le questioni di iconografia religiosa (sulle quali intervengono Alessandro Zuccari, Massimo Moretti e Claudio Sagliocco) sono assai interessanti: a esempio, saio con cappuccio a punta (cappuccini) o arrotondato (conventuali)? Del Merisi, in realtà, non ci rimane un San Francesco databile intorno al 1602-’03, al momento cioè in cui «una veste da cappuccino» e «un par d’ale» facevano la spola tra le botteghe dei due maestri. Magari Caravaggio si servì di quei materiali per la Natività trafugata dall’oratorio di San Lorenzo a Palermo, databile secondo ipotesi recenti al 1600 circa, laddove il San Francesco in meditazione (in cui il cappuccio del santo venne, appunto, inizialmente dipinto a punta, per essere poi corretto) certamente risale al 1606 circa: è quindi, probabilmente, successivo alle prime incursioni gentileschiane su questo tema.
L’inedita tela protagonista della mostra, secondo i curatori, potrebbe infatti essere stata dipinta tra il 1602-’03 e il 1605, quando Orazio era rientrato in possesso di quel saio. E magari, secondo l’ipotesi di Primarosa, si trattava di quella attestata nell’inventario del 1631 di uno dei suoi più importanti mecenati, Paolo Savelli (a confermarlo, forse, le lettere «p.s.» sul retro della tela, da intendersi come le iniziali del principe). Attraverso un close up impietoso, si impone l’immagine di un uomo del Seicento, dai tratti forti, popolari, che nulla hanno in comune con l’immagine più tipica del poverello di Assisi (quale si apprezza invece nella tela di Cigoli). Doveva trattarsi di un uomo con un nome e un cognome, proprio come il Giovan Pietro Molli che testimoniò all’altro grande processo della storia dell’arte romana di inizio secolo, quello del 1612 contro Agostino Tassi, accusato dello stupro di Artemisia Gentileschi. Molli, un vecchio palermitano, riferì di aver posato per un San Girolamo di Orazio, identificabile con una tela del Museo Civico di Torino. Il modello del San Francesco, da parte sua, poteva aver posato a inizio secolo per un altro San Francesco di Orazio, il capolavoro di sintesi formale e evidenza ottica, già riferito allo stesso Caravaggio, oggi a Princeton (1601-’02 circa), la cui assenza dalla mostra è dolorosa. Per le due tele con San Francesco e l’angelo del Prado e di Palazzo Barberini, nelle quali Orazio aveva dipinto un saio e un paio d’ali, invece non è certo che il maestro ritraesse un preciso modello nelle vesti del santo.
Atti processuali, inventari, modelli in carne e ossa, oggetti, evidenze stilistiche, iconografie collaudate. Tutto il discorso della mostra poggia su basi solidissime, e sembrerebbe non rimanere nulla di incerto; ma purtroppo, o per fortuna, non è così. La storia, e anche la storia dell’arte, difficilmente può essere ricostruita per intero al di là di ogni dubbio. E così nel suo saggio, lo specialista di Orazio, Keith Christiansen, avanza il 1613 come possibile termine post quem per il San Francesco appena riemerso, poiché fu in quell’anno che Gentileschi passò a lavorare per Paolo Savelli. Lo studioso non esclude che la tela attestata nell’inventario del 1631 possa essere stata dipinta anni prima, e la questione rimane aperta
Certo è che nel dipinto del Prado si sente quasi un’eco baglionesca nelle fattezze dell’angelo, e forse anche nell’invenzione, mentre ogni ricordo manierista è cancellato nell’inedito San Francesco, che allora si immaginerebbe di una cronologia un po’ più avanzata. Ma tanto da arrivare agli anni del San Francesco di Palazzo Barberini, che vari indizi suggeriscono di riferire al 1610-’12 circa, di straordinaria e rarefatta eleganza, in perfetto equilibrio tra arte e natura? Alla mostra, sarà possibile riflettere su questo dibattito appena iniziato.