La destra radicale no. Per quanto forte sia il disincanto, il popolo che con Hugo Chávez aveva conosciuto il riscatto e la speranza non deve essersela sentita – stando all’annuncio del Consiglio nazionale elettorale – di consegnare il paese a María Corina Machado e alla sua cricca. Cosa ci fosse dietro il candidato dell’opposizione Edmundo González Urrutia era, dopotutto, impossibile da nascondere: il colpo di stato dell’11 aprile del 2002, le violente guarimbas che hanno insanguinato il paese nel 2014 e nel 2017, la criminale farsa del governo ad interim di Juan Guaidó, i ripetuti tentativi golpisti, la difesa delle sanzioni che hanno messo (o almeno contribuito fortemente a mettere) in ginocchio il paese, le mai perdonate invocazioni di un intervento militare straniero.

Potrebbe essere questa, al termine di una giornata elettorale trascorsa in maniera del tutto pacifica, la spiegazione della vittoria di Maduro, con i suoi 5 milioni e passa di voti, pari al 51,2%, contro i quasi 4 milioni e mezzo (44,2%) del suo diretto avversario, e un’affluenza alta (del 59%) ma non altissima, a dimostrazione che gli appelli all’astensione dei chavisti dissidenti non sono caduti del tutto nel vuoto.

SCONTATA LA REAZIONE della destra radicale, la quale aveva già detto e ridetto che una vittoria di Maduro sarebbe stata possibile solo con i brogli: complice il ritardo nella divulgazione dei dati ufficiali – giustificato dal governo con un attacco informatico al sistema di trasmissione dei dati del Cne – l’opposizione si è proclamata vincitrice con il 70% delle preferenze, denunciando il mancato accesso a molti verbali dei seggi e annunciando per i prossimi giorni azioni mirate a «imporre la verità». Il Venezuela, ha affermato Machado, «ha un nuovo presidente ed è Edmundo González. Abbiamo vinto e tutti lo sanno, in tutti i settori del paese e in tutti gli stati».

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Che le aspettative di un cambiamento fossero forti non ci sono dubbi: lo aveva riconosciuto lo stesso Maduro, sottolineando la necessità di «un nuovo Stato» al servizio delle persone, «efficiente, leggero, moderno, avanzato». E altrettanto certo è che l’insoddisfazione nei confronti del governo sia largamente diffusa. Ma la maggioranza degli elettori potrebbe aver preferito alla fine la strada vecchia a quella nuova, tanto più incerta e pericolosa.

MEGLIO, INSOMMA, la stabilità garantita per altri 6 anni da Maduro – malgrado i salari miserabili contrapposti ai grandi benefici offerti alle imprese, la corruzione, la repressione del dissenso, la vuota retorica socialista accompagnata da politiche di segno chiaramente e nettamente capitalista – che il salto nel buio rappresentato dall’opposizione radicale, con il suo programma di governo pericolosamente simile a quello del presidente argentino.

INFATICABILE durante tutta la campagna elettorale, partecipando anche a quattro eventi in un solo giorno, Maduro ha permanentemente evocato l’eredità di Chávez, pur avendo adottato misure che ne hanno apertamente sconfessato il programma rivoluzionario. Significativo, per esempio, per il suo valore simbolico, il caso della restituzione ai legittimi proprietari di beni precedentemente espropriati dal predecessore, come il centro commerciale Sambil di La Candelaria, a Caracas, tornato nelle mani dell’imprenditore Alfredo Cohen. Qualcosa di inimmaginabile ai tempi del comandante eterno: «Mi devono cacciare da Miraflores perché ci sia un centro commerciale a La Candelaria», diceva Chávez nel 2008. Aggiungendo: «Come possiamo costruire il socialismo cedendo spazi vitali del popolo a questo modello smisuratamente consumista?»

TUTTAVIA, al di là dell’involuzione capitalista del governo Maduro, la ripresa economica c’è stata e se ne vedono gli effetti, per quanto non equamente distribuiti. Gli scaffali dei mercati sono tornati a riempirsi e, malgrado il salario minimo resti inferiore ai 4 dollari mensili – in un paese che nel 2012, sotto Chávez, vantava i salari più alti dell’America latina – sono aumentati i cosiddetti bonus di guerra economica e i ticket per l’alimentazione. E tutto questo ha forse contribuito a rendere un po’ più credibile il piano governativo delle cosiddette “7T”, sette grandi trasformazioni centrate specialmente sulla promessa di una nuova tappa economica, nel segno di una crescita sostenuta, della fine del ciclo di iper-inflazione, di una completa sovranità alimentare e di un’industrializzazione in grado di superare una volta per tutte la dipendenza dal petrolio.