Era una notizia ampiamente annunciata che le elezioni presidenziali di domenica in Venezuela avrebbero suscitato contestazioni e infuocate accuse di broglio. E che avrebbero diviso la diplomazia internazionale, sia a livello latinoamericano che globale.

Previsioni confermate a livello locale. L’opposizione venezuelana ha gridato ai giganteschi brogli e ha dichiarato che il vero vincitore è Edmundo González. Nel subcontinente è prevalsa la prudenza. Solo l’impresentabile presidente argentino Javier Milei, ha urlato contro la dittatura di Maduro. Sospetti e incredulità sull’esito del voto sono stati espressi dal presidente guatemalteco Arévalo e da quello cileno Boric , come pure dal collega dell’Uruguay Lacalle Pou, i quali hanno chiesto una verifica urgente da parte di osservatori indipendenti.

Un controllo del conteggio dei voti è stato chiesto anche dal presidente colombiano Gustavo Petro, ma «come garanzie per la democrazia venezuelana». Sono rimasti in silenzio le diplomazie dei due giganti latinoamericani, Messico e Brasile. Entrambi in attesa di chiarimenti (anche se l’inviato di Lula, l’ex ministro degli esteri Amorim, si è «rifiutato di avallare le accuse di brogli»).
Entusiasta invece l’appoggio dei leader dello schieramento bolivariano, il presidente cubano Díaz-Canel, il boliviano Arce e il nica Ortega.

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Quello che invece ha sorpreso, dopo che alla vigilia i grandi mass media occidentali avevano data per certa la vittoria dell’opposizione, è stato il pragmatismo delle prese di posizioni delle potenze occidentali. Che vanno dal giudizio moderato della diplomazia spagnola, ovvero che i venezuelani hanno espresso il loro voto e che a meno di brogli dimostrati questo voto deve essere accettato, a quello del segretario di Stato Usa Antony Blinken, che ha rovesciato i termini: a meno di conferme di una urgente e necessaria revisione del voto da parte di osservatori internazionali la vittoria di Maduro è in forte dubbio. Ma nessuna condanna netta e inequivocabile. Da parte delle potenze amiche, Russia e Cina soprattutto, è stato confermato l’appoggio a Maduro.

Una serie di fatti fanno ritenere che, nonostante le proteste, i risultati di domenica verranno mantenuti. A differenza di precedenti elezioni, queste presidenziali si sono svolte senza incidenti di rilievo. L’opposizione ha potuto fare la sua campagna senza violenze. E anche la giornata del voto si è svolta in un clima di normalità. Analisi indipendenti hanno poi accreditato il governo bolivariano di uno zoccolo duro chavista valutato attorno ai 4 milioni di votanti. Non è dunque impossibile che la massiccia campagna di Maduro e le relative pressioni abbiano potuto aggiungere voti sufficienti a una vittoria.

Il presidente Maduro, poi, ha dimostrato di essere alla guida di un regime per molti versi bonapartista, ma anche di un governo indipendente. Una situazione che ricorda il governo di Peron in Argentina. Lo Stato bolivariano si è mantenuto forte, non è certo una banana repubblic. L’alleanza bolivariana con le forze armate e la sicurezza è stabile, a livello di alta burocrazia non si sono verificate importanti fratture e anche la frazione capitalista in formazione, la cosidetta boliburguesia, lo appoggia.

Infine bisogna mettere in chiaro che la vera posta di queste elezioni non era la democrazia – del resto una leader di destra dura e fascistoide come Corina Machado non dà garanzie migliori. Quello che è in gioco è il controllo della Pdvsa e delle riserve di greggio del Venezuela – le più grandi del pianeta – oltre a una serie di metalli rari. Su questo punto, in tema di economia, l’ultimo anno del governo Maduro ha virato nettamente verso posizioni assai pragmatiche con elementi chiaramente liberisti.

Se non fosse per le posizioni antimperialiste, per molti versi l’ultimo governo venezuelano potrebbe essere definito borghese. Ma quello che importa è che questo cambiamento di rotta non dispiace – e comunque non è visto come ostile – alle grandi compagnie nordamericane. Una vittoria dell’opposizione, dal loro punto di vista, potrebbe produrre un clima ben più instabile della permanenza alla presidenza di un Maduro disposto a trattare.