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Capolavori in cassa, l’occhio e le peripezie dei “Monuments Men”

Capolavori in cassa, l’occhio e le peripezie dei “Monuments Men”Il salvataggio della «Gioconda» di Leonardo, spedita dal Louvre a Chambord nel 1939

Un volume dei Musei Vaticani sul salvataggio del patrimonio artistico durante il secondo conflitto mondiale Londra, Parigi, Roma e Berlino, 1939-1945: come furono sottratti alle bombe i tesori che custodiscono l’identità europea

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 17 gennaio 2016

È ancora ben vivo il ricordo di Khaled al-Asaad, l’archeologo siriano che nell’agosto dell’anno scorso fu decapitato dall’Isis per non aver voluto rivelare dove erano stati nascosti i tesori archeologici dell’antica Palmyra. Tutelare il proprio patrimonio artistico in tempo di guerra è una preoccupazione che le nazioni civilizzate hanno sempre avuto. È grazie a film come Monuments Men di George Clooney (2014) e Francofonia di Aleksandr Sokurov (2015) che qualcosa di quanto fu fatto in questo senso durante la seconda guerra mondiale è venuto recentemente a conoscenza del grosso pubblico. Ma c’è ancora molto da scoprire. Ne è prova il volume Musei e monumenti in guerra, 1939-1945 Londra Parigi Roma Berlino, curato da Teresa Calvano e Micol Forti per le Edizioni Musei Vaticani (pp. 304, euro 60,00), che ricostruisce con dovizia di documenti ma anche con piacevolezza di esposizione le misure di tutela che furono messe in atto dalle principali nazioni europee coinvolte nel conflitto.
Gran Bretagna, Francia, Italia e Germania ebbero da subito ben chiaro che tutto poteva essere ricostruito in caso di distruzione, ma non le opere d’arte, i monumenti e i musei che rappresentavano l’identità culturale della nazione. Tutti questi paesi dovettero, seppure con modalità diverse, fare scelte non indolori: spostare parte dei propri tesori artistici, selezionare le opere a cui dare priorità, abbandonare le altre a un destino incerto.
La guerra civile spagnola fu una sorta di prova generale: dopo i primi tentativi di protezione in situ e di messa al sicuro delle opere più importanti nei depositi di alcuni musei della capitale, il governo repubblicano le trasferì in centri più lontani dai teatri dei combattimenti, e in ultimo si decise a evacuarle in Svizzera, dandole in custodia alla Società delle Nazioni. Con profondo senso patriottico, però, specificò che alla fine del conflitto tutto doveva essere restituito alla Spagna, anche se era ormai chiaro che sarebbe stata la Spagna di Franco. L’interesse della nazione doveva prevalere sugli odii di parte.
In Francia, all’indomani dell’invasione della Polonia da parte della Germania, già si compilarono le prime liste di capolavori da evacuare in caso di guerra. Nel 1939 tutti quelli dei principali musei, a cominciare dal Louvre, erano già imballati e pronti per essere spediti a Chambord. La cassa che conteneva la Gioconda portava stampigliati tre bollini rossi, contrassegno del suo eccezionale valore. Gli occupanti tedeschi, fortunatamente, non si comportarono tutti allo stesso modo: se la famigerata commissione Rosenberg razziò sistematicamente le opere d’arte di proprietà di ebrei, il Kunstschutz, il servizio di protezione del patrimonio artistico, agì in maniera illuminata, tanto che il suo direttore, il conte Wolff Metternich, a guerra finita fu insignito da De Gaulle della Legion d’Onore. Ed è giusto ricordare che i monumenti e i musei parigini si salvarono solo perché il generale von Choltitz si rifiutò di mettere a fuoco la città come aveva ordinato Hitler.
La Gran Bretagna aveva pianificato l’evacuazione dei quadri della National Gallery in Canada. La decisione finale spettava però a Churchill. Questi forse non pronunciò mai la frase che spesso gli viene attribuita, «ma allora per che cosa combattiamo?», ma è certo che ordinò: «non un solo quadro deve lasciare quest’isola». Cedere anche solo temporaneamente quei simboli di civiltà in cui tutto il Paese si riconosceva sarebbe stata comunque una sconfitta. Alla fine fu deciso di nasconderli in una miniera del Galles.
La stessa Germania, a guerra iniziata, dovette prendere delle precauzioni. Per motivi propagandistici i musei continuarono ad allestire mostre straordinarie, ma le opere di maggior valore furono messe in sicurezza in rifugi blindati. Ciò che non fu possibile rimuovere, come l’Altare di Pergamo e la Porta di Babilonia del Pergamon Museum di Berlino, fu protetto con sacchetti di sabbia e impalcature, ma non sempre questo bastò.
È comunque alle vicende italiane che il libro dedica il più ampio spazio. Dopo il 1940 si cominciò a compilare elenchi di opere da tutelare. Si individuarono rifugi a Genazzano, Civitacastellana, Urbino, Carpegna e Sassocorvaro. I principali protagonisti dell’operazione, Emilio Lavagnino e Pasquale Rotondi, svolsero il compito in condizioni di estrema precarietà. La situazione precipitò nel 1943. In agosto l’Italia avviò contatti con la Santa Sede affinché il patrimonio artistico italiano fosse ospitato in territorio neutrale. Il feldmaresciallo Kesselring – lo stesso che l’anno dopo avrebbe ordinato l’eccidio delle Fosse Ardeatine – mise a disposizione, in un momento in cui ogni goccia di benzina era preziosa, uomini e mezzi per il trasferimento. Del resto, nel Kunstschutz italiano c’erano i rozzi scherani di Goering che, come i segugi di Verre di ciceroniana memoria, puntavano i tesori concupiti dal loro padrone, ma c’erano anche – lo ricorda Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, nella prefazione al volume – tanti ufficiali colti che, memori di Goethe, veneravano il ‘paese dove fioriscono i limoni’: tra essi il direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze, Friedrich Kriegbaum, che insieme al console Wolff si adoperò, purtroppo non sempre con successo, perché il capoluogo toscano non avesse a soffrire danni.
Una cosa risulta evidente da questo libro: i buoni e i cattivi non stavano tutti da una sola parte. Gli Alleati non si comportarono tutti come il tenente Frederick Hartt, lo storico dell’arte di Yale che salvò centinaia di opere d’arte correndo con la sua mitica jeep da Pisa ad Arezzo, da Volterra a Siena. Comandanti ottusi si resero responsabili, tra l’altro, della distruzione dell’Abbazia di Montecassino, del danneggiamento della chiesa di Santa Chiara a Napoli, di Pompei e degli affreschi del Camposanto di Pisa.
Gli studiosi italiani, al di là delle ideologie, diedero un formidabile contributo, che i bei saggi di Paola Nicita e Micol Forti valorizzano adeguatamente. Oltre ai già citati Lavagnino e Rotondi (entrambi insigniti di medaglia d’oro dalla Repubblica Italiana), vanno ricordati almeno Giulio Carlo Argan e Guglielmo De Angelis d’Ossat. Furono loro che, d’intesa col direttore dei Musei Vaticani, Bartolomeo Nogara, e con l’appoggio del Kunstschutz, realizzarono il trasferimento di oltre novecento casse di capolavori dell’arte italiana nei palazzi vaticani. Essi ebbero tra l’altro il coraggio di disobbedire alle direttive della Repubblica di Salò, che invece avrebbe voluto concentrare tutto al nord. Le operazioni si svolsero nell’inverno 1943-’44 tra mille difficoltà, con camion presi in affitto da privati o con utilitarie personali, schivando i bombardamenti anglo-americani. In Vaticano quelle opere sarebbero rimaste fino al termine del conflitto, fatta eccezione per alcune che, subito dopo la liberazione di Roma, furono esposte in una mostra che si può considerare emblematica di tutta questa straordinaria vicenda: fu progettata dal maggiore De Wald, uno dei famosi Monuments Men; vi collaborarono due studiosi italiani in prima linea nella salvaguardia delle opere d’arte, Palma Bucarelli e Giulio Carlo Argan; si tenne in quelle stesse sale di Palazzo Venezia che fino a poco tempo prima avevano visto i fasti dell’esecrato regime.

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