Cento anni fa, nel 1922, Giuseppe Capogrossi decideva di lasciare negli uffici il suo diploma di laurea in giurisprudenza per attingere alla tavolozza pittorica di quel periodo, mescolando echi del Ritorno all’ordine con istanze metafisiche (nel 1923 è alla scuola del nudo di Felice Carena in via degli Orti Sallustiani incoraggiato da un potente zio gesuita, negli anni successivi saranno le luci parigine ad attirarlo spingendolo a numerosi soggiorni e nel ’27 si rivelerà per la prima volta al pubblico nella mostra alla Pensione Dinesen di Roma, con il sodale Emanuele Cavalli e Francesco Di Cocco). In sottofondo, sui ritratti e le nature morte – che via esporrà con sempre maggiore successo fino alla consacrazione delle Quadriennali, la Biennale del ’54 e le rotte americane – si espande quel malinconico e crepuscolare tonalismo romano cui sarà fedele per molto tempo lavorando in solitudine, senza prendere parte ai fervori dell’epoca, alle battaglie fra astrattisti e figurativi né agli accadimenti politici.

Dietro le quinte

«HO SEMPRE CERCATO – affermava l’artista – di esprimere direttamente il senso dello spazio che era dentro di me e che realizzavo compiendo gli atti di ogni giorno». La sua produzione ha fin dal principio una qualità introspettiva da difendere. Quello spazio, però, negli anni ’40 comincerà a deflagrare con gli effetti sfaccettati del cubismo picassiano assorbendo forme geometriche e raggi di luce al posto delle rappresentazioni di oggetti e corpi. Fino allo spartiacque temporale del 1950 quando Capogrossi, nella personale alla galleria del Secolo di Roma, stupirà tutti (anche Corrado Cagli che scriverà il testo critico riferendosi a un’inquietudine germinativa) con quel suo caratteristico segno ancestrale a riempire la superficie in modo autonomo: una «forcina», un graffito preistorico e misterioso che da quel momento in poi costituirà la sua geniale «firma d’autore».

Capogrossi con la moglie Costanza, mentre ritocca la Superficie 512, 1963

La ricorrenza dei cinquant’anni dalla sua scomparsa (1972) ha suggerito alla Galleria nazionale d’arte moderna di rendere omaggio al maestro del Novecento, con la mostra Capogrossi. Dietro le quinte a cura di Francesca Romana Morelli, in collaborazione con la Fondazione Archivio Capogrossi e il sostegno di Ghella e UniCredit (fino al 6 novembre). Il «dietro alle quinte» del titolo (che è anche un dipinto) crea il filo invisibile dell’artista che dalla naturalità filtrata con la pittura tonale passa a un immaginario bidimensionale, autonomo, un linguaggio in assonanza con gli ideogrammi che si radica in se stesso e si fa, a sua volta, alfabeto fondante (non è casuale l’adesione al gruppo Origine con Burri, Colla e Ballocco).

L’ITINERARIO è disegnato da una selezione di oltre trenta dipinti e una ventina di opere su carta, provenienti dalle collezioni della medesima Galleria (che può contare su un grande nucleo di suoi lavori), dalla Fondazione Archivio Capogrossi e da raccolte private. Il corpus di opere è accompagnato da documenti e ritratti fotografici (purtroppo privi di un apparato di note e didascalie). Fra i «pezzi forti» in mostra, il Paesaggio invernale (1935), immortalato dalla terrazza della palazzina nel quartiere Prati dove Capogrossi aveva lo studio e il maestoso arazzo Astratto (1963), ideato per la Turbonave Michelangelo.
Si esce dalla Galleria d’arte moderna, però, con la sensazione di aver percorso e «letto» visivamente solo il primo capitolo di una rassegna ancora tutta di là da venire.