L’itinerario artistico di Giuseppe Capogrossi (1900-’72) potrebbe essere narrato in molteplici modalità espositive, tutte legittime anche se, forse, non tutte ugualmente efficaci in termini d’impatto visivo.

In passato ci si è spesso avvalsi di rievocazioni monografiche che, privilegiando un andamento lineare e progressivo, hanno ricostruito secondo coordinate cronologiche tradizionali il complesso profilo di un maestro del Novecento rivelatosi grande tanto nelle prove figurative quanto negli esperimenti astratto-informali.

Benché maggiormente comprensibili al grande pubblico, dispositivi allestitivi tesi a evitare bruschi passaggi temporali perpetuano, a volte in maniera inconscia e involontaria, uno schema interpretativo d’impianto teleologico che rischia di ridurre il libero percorso creativo di un artista a una sorta di parabola ascendente dove, a ben vedere, i prodotti giovanili d’impronta figurativa appaiono se non di minor valore comunque ancillari rispetto alle ricerche mature slegate da preoccupazioni mimetiche.

Per inquadrare criticamente la figura di Capogrossi non di rado si è fatto ricorso al paradigma dell’incomunicabilità tra la fase tonale degli anni trenta e la radicale svolta astratta ostinatamente portata avanti dagli anni cinquanta fino alla fine della carriera. In effetti, chi ha un orizzonte visivo permeato dalle intense opere del primo periodo – nature morte, ritratti, scene paesaggistiche accarezzate da un luminismo prezioso e rarefatto – rimane spesso interdetto dalle più tarde ed enigmatiche superfici ricoperte da icastici segni antinaturalistici – più tardi denominati da Gillo Dorfles «forme a forchetta» – destinati non solo a diventare marchi identitari dell’artista ma, al pari delle lacerazioni di Fontana e delle combustioni di Burri, capaci di essere elevati a vessilli di un modernismo made in Italy apprezzato e riconosciuto anche all’estero.

La serrata contrapposizione tra un «prima» confinato nel contesto – per molti ancora reazionario perché coincidente con il Ventennio – della Scuola romana e un «dopo» all’apparenza più sperimentale sincronizzato sulle inquietudini dell’Informale, è stato un topos che ha pesato sulla ricezione di Capogrossi almeno sin dal 1950, anno in cui, presso la galleria del Secolo a Roma, egli espose per la prima volta – con la rivelatoria presentazione in catalogo di Corrado Cagli – la sua più recente, e spiazzante, produzione astratta.

Contro le periodizzazioni scolastiche e le approssimazioni esegetiche orientate a separare indirizzi linguistici apparentemente contrastanti si pone invece la mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma Capogrossi. Dietro le quinte (fino al 6 novembre).

Giuseppe Capogrossi

La retrospettiva – organizzata nella ricorrenza dei cinquant’anni della morte dell’artista e curata da Francesca Romana Morelli con il coordinamento scientifico di Claudia Palma, responsabile dei fondi archivistici della Galleria Nazionale – propone di leggere l’insorgenza del modulo astratto capogrossiano in un’ottica di stretta continuità con i lavori figurativi.

L’allestimento, tutto costruito sulla giustapposizione di lavori cronologicamente e stilisticamente molto distanti tra loro, sfida la passività dei visitatori poiché spinge a cogliere corrispondenze compositive, assonanze formali e affinità timbriche in un certo qual modo inattese se si considera l’aspetto di manufatti a prima vista così antitetici.

Ed è proprio grazie alle proficue «interferenze» generate dalla vicinanza di opere esteriormente disomogenee che l’esperienza della visione dei capolavori di Capogrossi non solo si arricchisce di una nuova consapevolezza ma arriva ad acquisire una profondità di campo imprescindibile per comprendere la cifra espressiva unitaria alla base della proteiforme, e problematica, poetica dell’artista.

Infatti, nei dipinti realizzati tra le due guerre riecheggia un solido senso d’astrazione riconoscibile ad esempio nell’attenzione rivolta al bilanciamento di ombre, luci e forme ancora correlate al mondo fenomenico ma comunque epurate da eccedenze descrittive e da pleonasmi narrativi; concepite quasi secondo una logica costruttivista esaltando al massimo grado i valori di superficie, le opere figurative si rivelano dunque connesse agli arditi sistemi di segni che, a partire dai tardi anni quaranta, cominceranno insistentemente ad affiorare all’interno di creazioni destinate a diventare icone della sensibilità autre (nel 1951, grazie al cruciale interessamento di Michel Tapié, Capogrossi fu l’unico artista italiano a comparire a fianco di nomi del calibro di Pollock, Wols e De Kooning nella mostra Véhèmences confrontées presso la galleria Dausset di Parigi che contribuì a dare risonanza extraeuropea all’Informale).

La scelta di dare rilievo a opere esteticamente suggestive appartenenti sia alle collezioni della stessa Galleria Nazionale sia a privati – si pensi a tele poco esposte come Superficie 419 (1950 circa), già di proprietà dall’architetto Luigi Moretti e qualificata da una spazialità baroccheggiante, o ancora a Ritratto femminile (1931) e Il moretto (1930 circa) intrise ancora di umori impressionistici e spadiniani – non fa altro che potenziare l’idea dell’osmosi tra l’impulso alla semplificazione rappresentativa e l’inclinazione naturalistico-decorativa. Del resto già nel 1933 Roberto Melli, quasi presagendo gli sviluppi futuri, parlò della pittura di Capogrossi come di «una geografia degli arcani», dove gli elementi riuscivano a essere organizzati «secondo il ritmo intimo dell’artista» e «la netta sostituzione dello spirituale all’astratto».

Non bisogna dimenticare inoltre che all’interno della Scuola Romana agiva carsicamente l’aspirazione all’astrazione: basti fare riferimento a esponenti di prima importanza come Cagli, Afro, Mirko e Colla i quali, dopo i traumatici eventi della Seconda guerra mondiale, si avviarono – in modalità originali ma parallelamente a Capogrossi – verso prospettive astratto-concrete.

L’unico potenziale limite a cui potrebbe esporsi l’accattivante e persuasivo ordinamento allestitivo predisposto dal museo di Valle Giulia andrebbe forse riconosciuto nel non immediatamente manifesto travaglio interiore che investì Capogrossi durante il faticoso lavoro di rielaborazione del proprio etimo artistico. Il passaggio dalla figurazione all’astrazione, seppur intrapreso senza ripensamenti, non fu assolutamente repentino ma, al contrario, fu talmente sofferto da venir preceduto da un momento intermedio di riflessione – la cosiddetta fase delle superfici 0 di cui si sarebbe auspicata una maggiore documentazione in mostra – caratterizzato da un lento ma inesorabile processo di decantazione dei residui realistici dell’immagine.

Tuttavia, i moti dell’animo e le convinzioni estetiche di Capogrossi riescono a essere ben percepibili inoltrandosi nell’eccellente sezione documentaria che la curatrice ha concepito in accordo alla virtuosa, e ormai vagliata, politica di valorizzazione degli archivi d’artista condotta dalla Galleria Nazionale. Attraverso lettere, appunti, schizzi, scatti fotografici, rari cataloghi di mostra – di pertinenza sia del museo romano sia della Fondazione Archivio Capogrossi – la ricerca del segno perduto del pittore riesce a convergere in una trama di relazioni e suggestioni fitta proprio come la tessitura dei suoi morfemi.