Capitol, miracolo a LA
Ci sono almeno tre anniversari, in questo 2024, che permettono di aprire un discorso sulla Capitol Records, la casa discografica «simbolo» di Los Angeles, che arriva a identificare la musica stessa con una città nota al mondo quasi esclusivamente per l’industria cinematografica. Risalgono a ottant’anni fa i primi singolari exploit ad appena due anni dalla fondazione, mentre è del 1954 la posa della prima pietra del Capitol Records Building, l’edificio cilindrico più rappresentativo dell’architettura moderna dell’intera Big Orange, come viene chiamato dai jazzisti – in risposta alla Big Apple sulla East Coast – il centro più popoloso dell’intera costa occidentale.
Ma è a distanza di un sessantennio che, grazie a una svolta clamorosa, la Capitol si appresta, accettando di valorizzare la beatlemania, a diventare anche una casa distributrice aperta al mondo (soprattutto britannico) e alle musiche giovanili senza distinzioni di genere, purché di successo. Sotto quest’ultimo punto di vista la Capitol sembra rientrare nell’ottica capitalistica di Hollywood, dove la Settima Arte è nota e vissuta come una macchina da soldi, atta a «fabbricare sogni» con le regole di un mercato spesso aggressivo, barbaro, disumano.
Del resto la nascente industria discografica sulla West Coast deve molto alla Mecca del cinema perché, già negli anni Trenta, in piena era swing, quando il jazz è insomma una pop music universale a tutti gli effetti, le orchestre sia bianche sia nere e di stanza a New York – da Benny Goodman a Duke Ellington, da Louis Armstrong a Lionel Hampton – compiono fortunate tournée in una Los Angeles che sta vivendo la definitiva consacrazione (anche e soprattutto finanziaria) del film sonoro, che per le colonne sonore richiama compositori da ogni parte.
Non è raro ad esempio, dai documentari dell’epoca, vedere George Gershwin accogliere Arnold Schönberg nella propria villa a Beverly Hills: il miliardario songwriter è amico del genio della dodecafonia, il quale fatica a inserirsi nel sistema commerciale, tirando a campare di sole lezioni private. I due compositori in tal senso incarnano quanto possa essere riconoscente o spietata la cosiddetta City of Angels a seconda dei gradi di accettazione di un modus vivendi al servizio dello show business. Di lì a qualche anno, lo stesso problema condizionerà le nuove generazioni di jazzisti moderni, che danno vita al cosiddetto West Coast Style: molti di loro entrano come turnisti (i più dotati anche quali autori) al servizio della mega azienda hollywoodiana.
ESPANSIONE
È in questo contesto socioculturale dei primi anni Quaranta che può nascere e svilupparsi l’esperienza della Capitol Records, nonostante la seconda guerra mondiale e un’espansione urbanistica che allontana più che avvicinare Los Angeles ad altre realtà metropolitane nelle forme e nei contenuti dei linguaggi sonori ormai mediatizzati. Benché possegga ancora un centro storico vitale – un po’ a sud rispetto al Capitol Building, non a caso a metà strada fra Northwest, l’Historic Filipinotown e le Hollywood Hills – la città postbellica tende a realizzarsi e ampliarsi nel territorio su scala orizzontale, anche per le faraoniche residenze (a castello, ranch, magione, cottage al massimo di tre piani) dei divi sulle colline circostanti o sulla costa pacifica, a differenza di quanto avviene a New York City con la verticalizzazione dei grattacieli o nella vicina San Francisco con i pittoreschi affollati quartierini dal volto umano, dove non a caso si susseguono molti fermenti artistici dal dixieland revival alla beat generation, dal movimento hippie al sound psichedelico.
Anche Manhattan – in seguito persino Brooklyn e il Bronx – con le aree ex manifatturiere (Village e SoHo, oltre il caso di Harlem) assume, nello stesso periodo, una qualità «europea» dove le abitazioni (i loft, in particolare), i locali notturni (jazz club e teatri off) e persino gli uffici delle piccole label prosperano gomito a gomito, talvolta in un processo d’integrazione che darà pure ottimi risultati sul piano artistico e organizzativo. È l’esatto contrario della dispersione più o meno organizzata nella megalopoli tentacolare – oggi grande quanto la Toscana – dove non sarà strano imbattersi nelle scorribande di sette sataniche; la strage di Bel Air compiuta da Charles Manson (non a caso un rocker fallito) metaforizza la fine dell’ennesimo sogno americano in pieno ’68/’69, che un altro losangeleno, il romanziere Philip K. Dick ribalta con la messinscena simulacrale della Los Angeles fantasmatica di Blade Runner, anticipando di oltre mezzo secolo il Metaverso e l’Intelligenza Artificiale.
VALORI ESTETICI
Nonostante le distanze abissali fra studios, abitazioni, musei, centri culturali, molti quartieri di Los Angeles – West Hollywood in primis – attraggono intellettuali e artisti vogliosi di cambiare il sistema dall’interno, forti dell’ottimismo riformista roosveltiano, nonostante le censure – spesso aggirate – del Codice Hays e con un quindicennio di anticipo rispetto alla repressione anticomunista maccartiana: in mezzo ci sono via via la guerra a Hitler, Mussolini, Hirohito, le prime ricerche etnomusicologiche con sovvenzioni statali, i V-disc (primo e al momento isolato utilizzo della discografia al servizio dell’esercito) e il lungo sciopero dei discografici contro l’idea anacronistica del sindacato musicisti che vorrebbe frenare, con leggi apposite, la tecnologia rispetto al concertiamo tradizionale.
In tutto questo la Capitol Records si differenzia come un unicum, non solo per essere a lungo la prima e sola californiana a mettersi in concorrenza con le label indipendenti newyorkesi, ma soprattutto per distinguersi, quasi a livello di una major, con un operato a 360 gradi sull’intera gamma della produzione sonora, spaziando dal folk al pop, dal lounge al country, dalla classica alla etnica, per non parlare della black music sempre più un mondo a sé, dagli sbalorditivi valori estetici.
Fondatore della Capitol risulta Johnny Mercer già noto quale cantante, paroliere e di rado autore musicale: s’avvale dell’aiuto finanziario di Buddy DeSylva (anch’egli songwriter e al contempo produttore cinematografico) e del senso degli affari di Glenn Wallichs, proprietario dell’antesignano dei megastore di dischi, il Wallichs Music City. Il 2 febbraio 1942, Mercer e Wallichs incontrano DeSylva al ristorante Chasen’s di Hollywood per parlare degli investimenti della Paramount Pictures verso la futura casa discografica. E il 27 marzo 1942, i tre pensano a un nome come Victory Records, troppo simile alla grande RCA-Victor o ai suddetti V-discs (dischi della vittoria): si costituiscono come Liberty Records, modificando la domanda per i legali a maggio, con l’intenzione di cambiare ancora il nome dell’etichetta nella meno politicizzata, ma pur sempre nazionalista Capitol Records (capitol vuol dire infatti campidoglio).
Il 6 aprile 1942, Mercer supervisiona la prima session di registrazione in cui Martha Tilton incide la canzone Moon Dreams, a cui seguono in quello stesso anno ben 110 brani tra cui il disco d’oro Cow-Cow Boogie di Ella Mae Morse (ripreso alla grande anche da EllaFitzgerald per la Decca) e persino un Trav’lin’ Light con Billie Holiday accompagnata dalla Paul Whiteman Orchestra, quest’ultima sotto contratto esclusivo come, per primi, Johnnie Johnston, Jo Stafford, i Pied Pipers, Tex Ritter, Paul Weston e Margaret Whiting.
Tornando ai tre anniversari, alla Capitol spetta il maggior exploit fra tutte le canzoni che trattano della vita dei soldati durante la seconda guerra mondiale: G.I. Jive viene pubblicata nel 1944 e interamente scritta da Johnny Mercer che ne è pure il primo interprete: l’originaria intenzione è quella di scrivere un pezzo allegro e ottimista che piaccia ai militari al fronte; presto la song blueseggiante raggiunge il primo posto nella Harlem Hit Parade mantenendolo per una settimana, mentre nelle classifiche pop si piazza a un onorevolissimo numero 13. Tre mesi dopo, anche la cover del vocalist e sassofonista nero Louis Jordan Is You Is or Is You Ain’t My Baby si rivela un bel successo.
Da allora la Capitol è l’unica etichetta californiana a competere veramente con le major sulla East Coast (RCA, Columbia e Decca), inventandosi, oltre i rinomati studi di registrazione a Los Angeles, anche una seconda sede a New York City, non senza l’invio di apparecchiature di registrazione mobili in altre città americane. Nel dopoguerra vengono altresì sviluppati i reparti di dischi per l’infanzia e soprattutto quelli di musica colta in cofanetti di 78 giri dalle bellissime copertine in similpelle finemente lavorate; già dal 1949 ristampate nel nuovo formato lp si riscontrano tre fondamentali incisioni: da un lato Choros No. 10 del compositore brasiliano Heitor Villa-Lobos, con il contributo del Los Angeles Choral Group e della Janssen Symphony Orchestra, diretta da Werner Janssen, dall’altro la Sinfonia n. 3 del russo Reinhold Moritzovich Glière e la Sinfonia in re minore del francese César Franck, entrambe con Willem Mengelberg e l’Orchestra del Concertgebouw.
STILE GOOGIE
Il secondo anniversario concerne il Building, segno indiscutibile della città stessa, assieme alla scritta Hollywood sulle colline: per gli storici dell’architettura è un capolavoro dello stile googie, noto anche come populuxe, in quanto specchio di un’edilizia avvenirista, tipicamente californiana, influenzato dalla cultura dell’automobile, dei viaggi spaziali e dell’era atomica, il cui nome deriva dal caffè tutto vetri, calcestruzzo e neon a West Hollywood (purtroppo abbattuto nel 1980, non vincolato dalla Sovrintendenza).
Benché gli autori neghino l’appartenenza al genere, il palazzo esemplifica assai bene lo spirito di ciò che richiede una generazione entusiasta davanti alla prospettiva di un futuro brillante altamente tecnologico, riconoscibile anche mediante alcune musiche portate avanti dall’etichetta. Costruito al 1750 di Vine Street, abbastanza vicino alla Hollywood Walk of Fame, l’edificio viene concepito dal neolaureato progettista Louis Naidorf, con la supervisione dell’anziano maestro Welton Becket; anche sul significato dell’opera non vi è unanimità di giudizio: entrambi gli architetti a più riprese negano di voler simboleggiare una pila di dieci dischi, benché le guide turistiche e i turisti numerosissimi lo identifichino come tale. Rimane per iscritto la richiesta di un grattacielo antisismico «di tredici piani (il massimo allora consentito, ndr) in una strada secondaria in pendenza, a Hollywood, che deve essere mantenuto il più fresco possibile».
Mentre il cantiere è ancora aperto, la Capitol diventa proprietà dal 1955 al 2012 della EMI (Electric and Musical Industries, nata a Londra nel 1931) per essere successivamente incorporata dalla Universal Music Group e inserita nel Capitol Music Group, comprendente numerose altre etichette.
Prima costruzione cilindrica per uffici, inaugurata nel 1956, con 72 finestre a ogni livello, offre il massimo dell’efficienza al costo più basso, grazie all’essere tonda, dunque con pochi scalini tra i diversi vani e con un 20% in meno di superfici da riscaldare o raffreddare rispettivamente con caloriferi e aria condizionata. In cima, un’antenna a forma di ago da grammofono trasmette in codice morse la parola Hollywood. A dieci metri sotto il livello stradale ci sono i celebri studios in alta fedeltà progettati dal chitarrista Les Paul – l’inventore della Gibson – inaugurati da Frank Sinatra negli insoliti panni di direttore d’orchestra con l’album Conducts Tone Poems of Color, interamente composto da brani di Jeff Alexander, Elmer Bernstein, Gordon Jenkins, Billy May, André Previn, Nelson Riddle, Alec Wilder, Victor Young.
Il Capitol Records Building è altresì chiamato «The House That Nat Built» (La casa che Nat ha costruito) giacché il cantante Nat King Cole, assieme a Frank Sinatra, Judy Garland, Nelson Riddle, e via via Beach Boys, Tina Turner, Linda Rondstadt sono gli artisti americani che da allora a oggi contribuiscono a tenere alto il nome (e pingui le casse) dell’impresa, senza dimenticare il ruolo svolto dagli inglesissimi Beatles.
Nel 1964 – terzo anniversario – la beatlemania a stelle-e-strisce nasce discograficamente quasi per caso, perché i discografici della Capitol – a cominciare da Dave Dexter responsabile acquisti – stravedono solo per la surf music dei Beach Boys e respingono per ben due volte le canzoni dei «ragazzini capelluti» di Liverpool: sono due funzionari di basso livello a contraddire gli alti vertici e a lanciare sul mercato il 45 giri I Want to Hold Your Hand che in sole 24 ore diventa il 45 più venduto dell’intero catalogo.
FUORI I DISCHI
Riascoltando i primi successi a 33 giri, è facile accorgersi subito di come la Capitol risulti innovativa e autorevole sul versante della popular music americana: con uno sguardo retrospettivo il 1953 è il primo anno d’oro con tre lp che segnano l’interesse costante verso la storia del jazz sia strumentale sia cantato, pur riferito soprattutto ai grandi nomi: infatti da un lato The Duke Plays Ellington è un lavoro di piano jazz trio dove il «duca» sfodera la verve di originale solista nel ripassare 13 propri classici; dall’altro con Unforgettable di Nat King Cole e con In the Wee Small Hours di Frank Sinatra si intuisce alla perfezione l’orientamento della casa discografica verso i crooner, con The Voice autore del primo concept album della storia (di proposito costruito sul tema dell’amore sofferto).
Del resto tra il 1956 e il 1958 Ol’ Blue Eyes si ripete con altri tre capolavori tra jazz godibile e canzone pop all’insegna di un rinnovato swing in Songs for Swingin’ Lovers!, Come Fly with Me e Songs for Only the Lovely. Benché spesso nascosta, swing è la parola d’ordine. Per intendersi, la continuità con i decenni precedenti viene garantita e aggiornata dal sound progressivo orchestrale di Stan Kenton (In Hi-Fi, Cuban Fire!, West Side Story) o dal vivace trombettista Louis Prima (The Wildest!, 1956), tra i molti italoamericani contattati dalla Capitol; tra questi il più nostrano resta comunque Dean Martin in grado con Dino Italian Love Songs (1962) di imporre il ritmo sincopato alla tradizione melodica in via di svecchiamento.
La Capitol, poi, ha una trovata geniale nel riproporre dieci incisioni del biennio 1948-49 in un unico album quasi spacciato come precursore di uno stile jazz in pieno fermento: Birth of the Cool (1957) di Miles Davis risulta al contempo una pietra miliare e un «falso storico», in quanto antologia posticcia; tuttavia la musica sublime, arrangiata da Gil Evans e Gerry Mulligan per nonet e tentet, esercita ancora fortissima influenza sulla scena moderna (californiana e non) proprio nel momento in cui il trombettista, ripulitosi dall’eroina, rinasce a una seconda vita artistica (per la rivale Columbia).
La linea originaria, pur con il passaggio alla EMI, viene mantenuta dalla Capitol ancora per un decennio a partire dall’ingresso del rock’n’roll con Bluejean Bop! (1958) di Gene Vincent and His Blue Caps e con There’s a Party Goin’ On (1960) di Wanda Jackson, unica donna star in un genere ostentatamente maschile (a tratti persino maschilista). L’attenzione verso il jazz afroamericano rimane, ad esempio, grazie al live Mercy Mercy Mercy (1966) del Cannonball Adderley Quintet quasi a riassumere la breve stagione dell’hard bop intriso di soul e funk o grazie al fortunato How Glad I Am (1964) della vocalist Nancy Wilson, anche lei tentata da soluzioni easy listening.
Ma durante la metà degli anni Sessanta le orecchie puntano alle mode giovanili del surf : ed ecco il mito dei Beach Boys con il facile Surfer Girl (1964) evolutosi in breve nel complesso Pet Sounds (1966), album dove la forma-canzone è filtrata dalle nuove tecnologie con un elaborato processo da studio system che influenzerà i Beatles di Revolver e di Sgt. Pepper: e non a caso i due album dei Fab Four saranno la punta di diamante della distribuzione Capitol negli Usa.
Per finire c’è un piccolo ’68 anche in casa Capitol con la pubblicazione di Music from Big Pink della Band, il sestetto canadese che, appena due anni prima, accompagnava Bob Dylan in tournée e poi nelle session del doppio Blonde On Blonde e degli informali Basement Tapes (a lungo bootleg ricercatissimo): la grande rosa del titolo è la villa nei pressi di Woodstock scelta dal cantautore quale buen retiro dopo l’incidente motociclistico, ma ben presto luogo d’incontro fra artisti e intellettuali, nonché sede notturna di favolose jam session. Da lì a oggi arduo distinguere tra presente e storia.
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