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Capitan Harlock arriva al cinema. Ed è subito un kolossal

Capitan Harlock arriva al cinema. Ed è subito un kolossalCapitan Harlock

Prima visione Shinji Aramaki orchestra una sinfonia nera per l'esordio su grande schermo del pirata spaziale protagonista delal grande stagione nipponica animata dei 70

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 3 gennaio 2014

Harlock, come l’Olandese Volante, viaggia nello spazio con la sua Arcadia, condannato alla vita eterna così come lo fu il marinaio di Wagner che maledì Dio. Ma non è l’amore che può redimere il pirata spaziale inventato da Leiji Matsumoto e che può salvarlo dalla catena dell’eterno ritorno, poiché egli è il fantasma di un’idea che inevitabilmente migrerà in un altro uomo, risorgendo di nuovo. Ecco dunque che da personaggio di carta nato durante quella stagione dell’animazione unica e remota, probabilmente irripetibile, che trascorse in Giappone durante gli anni ’70, Harlock diviene «essere» in computer graphic in un colossal nipponico che ribadisce il suo carisma e la galattica potenza sci-fi dell’immaginario che abita.

Uscito in sala distribuito in Italia da Lucky Red il primo di gennaio – un tetro ma splendido augurio- il Capitan Harlock di Shinji Aramaki è un film sull’inganno universale, sulla superficie che mente e si rivela essere sempre qualcos’altro, un ologramma di celluloide che celebra la finzione del cinema e condanna spietato le menzogne imposte all’uomo dal sistema, l’ignoranza universale come fonte prima di ogni schiavitù.

Harlock viaggia verso la Terra, divenuto luogo sacro e inavvicinabile, per ridonarla all’umanità intera, a costo di distruggere le architravi galattiche su cui si regge il tempo che regola l’andamento dell’universo. Il pirata dall’occhio bendato non è il protagonista del film ma è la sua anima, sostituito nel ruolo di personaggio principale da Yama, un ragazzo che entra a fare parte dell’equipaggio dell’Arcadia come novellino, destinato tuttavia ad influenzare definitivamente il fato della galassia e a rinnovare l’imperativo categorico di ribellione che l’astronave con il teschio rappresenta.

Ispirato lontanamente alla saga dei Nibelunghi, una serie di anime del 1999, Capitan Harlock possiede la tensione cinetica e cinematografica di un memorabile viaggio nello spazio, è un’odissea kubrickiana capovolta che non ci porta oltre l’infinito ma verso un nuovo inizio, laddove epilogo e preludio coesistono in un’alba-tramonto senza fine che ricorda la citazione fasulla di Pascal che Werner Herzog scrisse per l’incipit di Apocalisse nel Deserto: «al pari della Creazione anche la Morte del Sistema Solare avverrà con maestoso splendore».

Nella sua quasi nauseante e astrale tridimensionalità Capitan Harlock contiene momenti di cinema che possono esaltare il neofita e commuovere l’appassionato cresciuto con le imprese televisive del pirata: la doccia sensuale in assenza di gravità di Kai, con le gocce che levitano come bolle di sapone; i fiori, le piante e le fontane di una maestosa serra costruita nella rossa aridità di Marte dove si consuma una tragedia shakesperiana; le guerre stellari tra schiere di astronavi colossali bersagliate da diluvi di lucenti raggi distruttivi; la discesa aerea di Harlock verso la superficie di un pianeta roccioso che cela il corpo di un mostro abnorme; le trasformazioni particellari della verde, bellissima ed eterea Mime, il personaggio che con Harlock risulta meglio adattato dal cartone alla grafica digitale.

Shinji Aramaki, già regista del contorto e affascinante Appleseed tratto dal manga di Masamune Shirow, dirige Harlock orchestrando in una sinfonia nera e scarlatta, con la perizia di un professionista e l’amore di un otaku, il dinamismo spaziale e la stasi atemporale, i momenti di intimo, umano struggimento e la catastrofe cosmica, l’ipercinetica disperata della sopravvivenza e la lentezza coreografica del gesto marziale, riuscendo in questo modo a non trasformare le gigantesche e sorprendenti invenzioni di Matsumoto in gusci vuoti e senza spirito riportate in vita con l’egoismo e la megalomania di un dottor Frankestein come inerti bambole numeriche da esporre nella vetrina di una costosa operazione commerciale.

Shinji Aramaki e lo scrittore Harutoshi Fukui sono riusciti a comporre un’opera macabra e illuminante che rende omaggio all’arte di Matsumuto precipitandola nel futuro in tutta la sua profondità di contenuti e filosofia, senza tradirla e consegnandola intatta a chi la amò e a chi l’ha solo vagheggiata, crescendo nell’epoca di Ben 10, dei cloni dei Pokemon o di tanto pattume animato pseudo-pedagogico.

 

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