Cultura

«Capitale umano» e vite colonizzate, le impronte digitali del nostro presente

«Capitale umano» e vite colonizzate, le impronte digitali del nostro presenteSatin per abiti dell’Armata Rossa («L’abito della rivoluzione», Marsilio)

LINEE DI CONFLITTO «Negli anni del nostro scontento», il volume di Paolo Virno edito da DeriveApprodi. Gli anni Settanta, la trasformazione degli anni Ottanta e l’analisi della controrivoluzione

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 18 febbraio 2022

Il prologo a quello che Paolo Virno definisce un «diario pubblico» si conclude con una avvertenza: «le opinioni professate dall’autore a proposito di traversie e sentimenti di casa in quel decennio (gli anni 80) sembreranno interessanti se, e soltanto se, le si potrà applicare senza troppe contorsioni a traversie e sentimenti con cui sbrigarsela proprio ora».

VA SUBITO PRECISATO che quasi tutti gli articoli raccolti nel volume, salvo quelli che esplicitamente non lo pretendono, rispondono in pieno a questo requisito. Per una ragione di fondo. Il mondo nel quale oggi viviamo, scontenti come non mai, è stato forgiato proprio in quel decennio sulla base di una robusta e vittoriosa controrivoluzione che aveva preso le mosse nella seconda metà di quello precedente. Di questo passaggio, intorno al quale i brevi scritti di Virno immancabilmente ruotano, non tracciano tuttavia la storia. Rilevano però, come negli intenti dichiarati dall’autore, «la genesi delle impronte digitali del nostro presente», quelle ben visibili su tutti gli oggetti materiali e immateriali sui quali la controrivoluzione capitalistica ha messo le mani.

ASSUMENDO via via nomi diversi e diversamente beffardi, come «capitale umano» o «imprenditore di sé stesso», i vincoli, le unità di misura, gli strumenti di ricatto, di dominio e di colonizzazione della vita messi a punto in quegli anni ci hanno accompagnato per più di quattro decenni e segnano in gran parte tutti gli aspetti della nostra attuale esperienza. Più volte messi alla prova da imponenti fenomeni di crisi, belliche, economiche, finanziarie, dei debiti sovrani, fino alla pandemia, i fondamenti e il lessico della controrivoluzione neoliberale, come anche è stata chiamata, hanno continuato a delimitare ruvidamente l’orizzonte del possibile. Ad alimentare risposte violente e intransigenti come quella esemplare subita dalla Grecia. Una «nuova ragione del mondo», cruenta e tutt’altro che incline alle mediazioni, secondo la definizione di Dardot e Laval.

SI TRATTAVA, fin dagli esordi di questa trasformazione, di mettere a fuoco attriti, faglie, vie di fuga e linee di conflitto che si sviluppassero sul suo stesso terreno, nella frammentazione del lavoro e dei rapporti sociali, nella crisi delle appartenenze e delle tradizioni. Non di mettersi in trincea per salvare il salvabile. Di resistere in un fortino assediato. Era questa l’urgenza che ispirava la ricognizione in presa diretta degli anni 80 tentata attraverso le pagine culturali di un quotidiano: questo. Non vi era nulla di garantito, nessuna destinazione certa, ma un gran numero di ambivalenze tra le quali destreggiarsi e non pochi ferri vecchi di cui liberarsi.

Conflitti, nei decenni trascorsi, ce ne sono stati, anche intensi e capaci di lasciar traccia. Diversi feticci dell’ideologia neoliberale hanno perso ogni attrattiva e l’arbitrio ha dovuto frequentemente dismettere la maschera della naturalità che l’ideologia gli aveva conferito. Tuttavia, alla fine dei conti, l’assetto controrivoluzionario ha prevalso e continuato a tracciare la rotta. La scommessa di allora è rimasta una ipotesi controfattuale, modo assai caro al nostro autore e strumento ricorrente del suo metodo critico.

«CONTROFATTUALE – scrive Virno – è quel ragionamento che poggia su una premessa empirica dichiaratamente falsa (…) da essa ricavando una descrizione congetturale delle possibili alternative a stati di cose reali» e dunque cerca di cogliere «nelle condizioni obiettive di un lontano momento un futuro virtuale, disatteso, ma ancora promettente».

SE DA UNA PARTE ILLUMINA, per contrasto, il mondo quale è, dall’altro, privandolo della pretesa ineluttabilità, ne sostanzia e irrobustisce la critica. Se guarda al passato è per parlare al presente. A questa modalità di ragionamento appartiene, visto dall’oggi, lo scenario che immaginammo dopo la caduta del muro di Berlino (l’89 è trattato direttamente in uno solo degli articoli, ma aleggia un po’ ovunque) e il crollo delle cosiddette democrazie popolari come rottura di una gabbia che avrebbe liberato forze sociali e potenzialità autonome lungamente soffocate. Come sappiamo la storia dell’Europa orientale ha avuto tutt’altro e tetrissimo decorso.

TUTTAVIA SAREMMO del tutto disarmati nell’affrontare i regimi autoritari dell’Est e perfino la crisi Ucraina se non avessimo puntato, certo con grande azzardo, su quell’«altra storia» che non ha avuto corso e se non fossimo rimasti affezionati alle sue ragioni. Del resto quelli che volevano salvare il salvabile, conservando il presunto «buono» del passato si sono ritrovati tra le mani solo il suo reale cattivo autoritarismo.

L’intero sapiente montaggio di questi testi si offre dunque a una duplice lettura: la genealogia dell’oppressione che stiamo vivendo e al tempo stesso la ricerca pratica di un futuro «disatteso, ma ancora promettente». Una lettura politica, insomma, Come chiamarla diversamente?

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