«Una delle lezioni di questo disco è che il potere si ricicla sempre e non cambia mai: non ci sono poteri buoni». Così Cristiano De André, tra le pagine del libro di Alfredo Franchini e Ottavia Pojaghi Bettoni Questi i sogni che non fanno svegliare (Arcana), motivava già nel 2018 la scelta di rileggere dal vivo Storia di un impiegato. Ora che l’album compie cinquant’anni la sua versione esce in cd per Warner, rinnovando il confronto con l’originale e la sua ricezione.
Anarchia, simbolismo e psicanalisi tornano a rincorrersi nei versi: «C’è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre». Ma se Freud sopravanza Baudelaire e Max Stirner per voce di Cristiano, l’eco paterna reclama un aggiornamento della critica, che aveva liquidato l’album come «datato e verboso» (Bertoncelli), figlio di un «linguaggio da liceale» al servizio di un’ideologia «che non è chiaro se sia liberale o extraparlamentare» (così Gaber colpiva Faber). Più a destra, addirittura un’apologia del terrorismo.È vero, non sempre l’anarchia deandreiana riesce a sposarsi al marxismo dei suoi compagni, mostrando le «suture» notate da Bertoncelli; ma forse è proprio quell’esercizio artistico-politico comune l’esito più alto del processo di redenzione che porta l’anonimo protagonista ad abbandonare il suo individualismo e i «sogni che non fanno svegliare», la comfort zone dell’inazione politica.
Ferito da tale accoglienza, lo stesso De André aveva offerto una chiave di lettura al Corriere della Sera tre mesi dopo l’uscita dell’opera: «L’abbiamo scritta, io, Bentivoglio, Piovani, in un anno e mezzo tormentatissimo e quando è uscita volevo bruciare il disco. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile».
Più che l’abiura conta sottolineare la dimensione collettiva della scrittura. È vero, non sempre l’anarchia deandreiana riesce a sposarsi al marxismo dei suoi compagni (cui va aggiunto il fondamentale produttore Roberto Dané), mostrando le «suture» notate da Bertoncelli; ma forse è proprio quell’esercizio artistico-politico comune l’esito più alto del processo di redenzione che porta l’anonimo protagonista ad abbandonare il suo individualismo e i «sogni che non fanno svegliare», la comfort zone dell’inazione politica.

E SE LA STESSA visione del Sessantotto risulta molto meno confortevole, rispetto all’allegoria della Buona novella, lo si deve anche e soprattutto al mutato linguaggio musicale. Paradossalmente, in un disco che parte dagli inni del maggio francese, l’influsso da chansonnier viene disinnescato da Nicola Piovani distinguendo tonalmente influenze europee e americane (a partire dai primi due brani), assicurando al concept album la coerenza che lo rende tale e contestualizzandolo in chiave contemporanea, tra sintetizzatori e flauti alla Ian Anderson, progressive rock e musica da film. Un romanzo di formazione con le tinte di un poliziesco. Ed è proprio su questo aggancio cronologico che Cristiano gioca le sue carte, riscrivendo gli arrangiamenti e destreggiandosi in prima persona tra strumenti acustici ed elettrici. Non c’è bisogno di fare altrettanto con i testi: se le Millecento risparmiate dal fuoco possono apparire retrò, non è così per i valori religiosi, familiari e professionali che cinquant’anni dopo resistono alla base dell’individualismo borghese. Né sembrano invecchiati i riferimenti letterari di cui si nutre Storia di un impiegato, come il poeta russo Evgenij Evtušenko di cui Faber adattò il verso «non ci sono zar buoni».

A LIVELLO personale, nel riprendere la storia Cristiano esaudisce quello che era già il grande desiderio di Fabrizio: «In qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, rincontrare mio padre». In senso collettivo, egli aggiorna le lancette dell’opera sostenendo che «abbiamo fatto un passo indietro rispetto agli anni Settanta. I nuovi poteri ci hanno fatto credere che la felicità si potesse comprare». Per dirla con Faber: «Sono riusciti a cambiarci, ci son riusciti, lo sai».