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Cantimori, la storia per corrispondenza

Cantimori, la storia per corrispondenzaLa Scuola Normale Superiore e Piazza dei Cavalieri a Pisa. In basso, Cantimori con la moglie Emma Mezzomonti

Storiografi italiani Il passaggio dal fascismo al comunismo, i tormenti, la genesi di Eretici italiani... Nelle Edizioni della Normale i carteggi di Delio Cantimori con lo svizzero Werner Kaegi e Arnaldo Momigliano

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 20 settembre 2020

Il piacere di leggere i carteggi tra storici non è quello un po’ voyeuristico di spiare dal buco della serratura personaggi che ci immaginiamo come sacerdoti del culto del passato e che invece le lettere ci permettono di vedere alle prese con problemi molto più quotidiani di salute, amore, lavoro, famiglia e chi più ne ha più ne metta. Sì, a dirla tutta, c’è anche quel piacere lì. Ma la gioia più grande è quella di osservare le loro scoperte più famose, o i concetti che hanno permesso a loro e ai loro lettori di studiare il passato sotto altra luce, non nella veste elegante e precisa, ma a volte ingessata, del libro o dell’articolo scientifico, bensì nell’atmosfera febbrile in cui prendono forma, a contatto e a contrasto con le opinioni dei colleghi.
Questa gioia aumenta quando lo storico è Delio Cantimori, tra i più grandi del Novecento italiano, in dialogo con due colleghi di almeno pari levatura: da un lato Werner Kaegi, lo studioso di Basilea e biografo di uno dei suoi cittadini più illustri, Jacob Burckhardt (Animus comune Le lettere di Werner Kaegi a Delio Cantimori (1935-1966), a cura di Patricia Chiantera Stutte, pp. LVII-390, euro 38,00); dall’altra Arnaldo Momigliano, che nel 1938 dovette lasciare l’Italia dopo le leggi razziali per diventare forse il maggior antichista del suo tempo (La coscienza del tempo Il carteggio Cantimori-Momigliano, a cura di Pasquale Terracciano, pp. 191, euro 10,00, entrambi pubblicati dalle Edizioni della Normale).
Cantimori non fu uno storico che brillò per efficacia di scrittura. Se ne rammarica più volte anche in queste lettere. I suoi libri – solo due: il capolavoro Eretici italiani del Cinquecento (1939) e Utopisti e riformatori italiani, ora in ristampa per la prima volta dal 1943 da Donzelli – e il mare magnum degli articoli raccolti in volume da lui o dai suoi allievi sono esempi sempreverdi di acume e rigore storico, non di stile. Nelle lettere, questo sforzo dello scrivere non c’è, o almeno non si nota, e quindi quella gioia di cui si parlava sopra è pura, non venata da fatica.

Impazienza nell’interpretare
Cantimori fu infatti un grande scrittore di lettere. Grande prima di tutto per la loro quantità, che chi ha frequentato le sue carte ben conosce e che è forse anche un riflesso del fatto che «il suo lavoro culturale si muoverà sempre più spesso per ‘appunti’, ‘approssimazioni’, ‘rassegne’» (sono parole di Terracciano alle pp. 29-30 dell’introduzione al carteggio con Momigliano e che si possono estendere anche al destinatario di quelle lettere, che si trovò vieppiù a suo agio nella forma della lecture). Ma è soprattutto la qualità di quelle lettere che colpisce e che è in fondo anch’essa riflesso di quell’impazienza per forme troppo definite in cui racchiudere l’interpretazione del passato. Le lettere furono infatti per Cantimori un luogo dove praticare uno spassionato esercizio di analisi sul proprio lavoro e sul proprio io.
Quelli pubblicati in questi ultimi mesi dalle Edizioni della Normale sono due carteggi molto diversi. In quello con Kaegi – un uomo che ci appare così risolto, a confronto del suo tormentato interlocutore – Cantimori si apre come mai altrove. Il carteggio ci offre così un personale diario, lungo più di trent’anni: dalle ricerche precedenti agli Eretici fino alla morte. Peccato dunque per i frequenti refusi nelle trascrizioni, specie quelle di nomi di studiosi o personaggi storici – Sileno per Fileno, Mandron per Mandrou e così via –, che non aiutano la lettura. Il libro curato da Terracciano è invece più un volume sui rapporti tra Cantimori e Momigliano, con il carteggio (magro, a confronto degli intricati rapporti tra i due storici molto ben dipanati dal curatore) a fare da appendice.
Al di là delle differenze, sono però le analogie tra i due epistolari a colpire. La più vistosa tocca, prima ancora della storia, la politica. Nell’inverno del 1942 Cantimori si presenta alla conferenza della società storica di Basilea con il distintivo fascista in bella vista. «Ebbi un attimo di repulsione – ricordò Kaegi – ma già Cantimori aveva scoperto sul mio scrittoio l’ultimo libro di Mussolini Parlo con Bruno… “Come Lei può leggere il libro di un uomo che da vent’anni non ha detto una parola ragionevole?” Guardai il distintivo del partito e sorrisi leggermente perché ritenevo Cantimori un liberale camuffato». Liberale certo Cantimori non fu mai. Camuffato sì, e molto. Del resto fu proprio questa sua capacità di coltivare spazi interiori di dissenso da un regime da lui appoggiato in gioventù che lo aiutò a scoprire un oggetto di studio nuovo: il nicodemismo, cioè la tendenza dei simpatizzanti italiani della Riforma a nascondere le loro credenze sotto il velo della simulazione religiosa. Ha probabilmente ragione Terracciano nel vedere in questa comune sensibilità verso le tecniche usate dagli intellettuali di ogni epoca per sottrarsi alle pressioni del potere, la ragione profonda che spinse Momigliano a dedicare alla memoria di Cantimori il suo saggio su Leo Strauss, autore che in Persecution and the Art of Writing teorizzava un metodo di lettura «tra le righe» simile a quello utilizzato da Cantimori per decrittare gli scritti a stampa dei suoi eretici.
Venendo al carteggio con Momigliano, anche qui si fa sentire il contrasto con un Cantimori passato dal fascismo al comunismo, ma rimasto sempre lontano dalle concezioni liberali: «ciò che più temo – gli scriveva Momigliano – è che tu abbia abbandonato la nozione di una società di studiosi che lavorano al di sopra dei partiti e raggiungono la verità quando si pongono al di sopra dei partiti (…) società essenzialmente liberale in cui si è consapevoli della utilità di punti di vista differenti». Con quella sua capacità di spietata autoanalisi di cui si diceva, Cantimori gli rispose sul punto e, tre anni dopo, Momigliano rese onore alla capacità dell’amico di tenere a freno «il furibondo cavallo ideologico» (secondo l’espressione cantimoriana che dà il titolo a un recente volume di suoi scritti sul Novecento curato da Francesco Torchiani per Quodlibet): «Io ho tante volte temuto di perderti perché ogni dommatismo – e il marxismo in specie – è perdizione; ma qui c’è la prova che tu rimani, coraggiosamente, eretico».

Una dolorosa frattura
La sensazione che si imprime più nel profondo in chi legga queste lettere è proprio questa dolorosa frattura tra l’impegno in prima persona in cause politiche che si reputano degne del proprio appoggio e la pietas (purtroppo non hanno ancora inventato un termine migliore di questo ferrovecchio latino) dello storico per tutto ciò che viene spazzato via dall’avanzare del futuro. Lo si vede a proposito di un tema tornato di attualità in questi mesi: la distruzione dei simboli e delle immagini del passato, il Bildersturm praticato dalle frange più radicali della Riforma studiate da Cantimori: «Mah, Bildersturm e sollevazione di Baselland saranno certo cose molto buone. Ma quante cose belle sono andate di mezzo. Devo avere un angolino di cuore “burckhardtiano” proprio!» (p. 150). E certamente l’ombra di Burckhardt, e appunto di quella sua pietas verso il passato che gli rinfaccerà Nietzsche, aleggia in modo tenace tra le pagine di questi carteggi: Cantimori curò le Meditazioni sulla storia universale di Burckhardt, Momigliano ne introdusse la Storia della civiltà greca, mentre Kaegi sempre di Burckhardt scrisse una monumentale biografia in sette volumi.
Cantimori non ebbe la capacità, che mostra Kaegi in questo carteggio, di scrivere in lingue diverse dalla sua, né il respiro internazionale di Momigliano (i suoi Eretici, vòlti in tedesco proprio per iniziativa di Kaegi, non furono, e probabilmente mai saranno, tradotti in inglese). Non ne ebbe forse nemmeno il tempo: nonostante appaia vecchissimo nelle fotografie che lo ritraggono fin dagli anni dopo la guerra, morì a soli 62 anni nel 1966. Era appena tornato da un viaggio a Princeton, lasciando il dubbio di come sarebbero potute evolvere la sua produzione e le sue posizioni politiche se gli fosse stato dato più tempo. Parlando del suo soggiorno americano in una lettera a Kaegi, rivedeva implicitamente il duro giudizio sull’«americanismo economicistico, che vuole il prodotto entro un ritmo meccanico» espresso sempre all’amico svizzero nel 1947 (p. 96). Descriveva invece un’atmosfera serena: «morti in mare non siamo, venduti a Mammona (il quale non si è neppure accorto di noi) non siamo, senso critico non ne abbiamo perduto anzi (…) questa fiducia nel leggere e tradurre e capire, pura, senza scuola, esami, aiuti, concorsi etc. è bella, non l’ho trovata altrove e non la dimenticherò, anche se – precisava – non vedo in ciò il riassunto di tutta l’America» (pp. 372-373). In quell’inciso finale c’era tutto l’uomo Cantimori e la sua insoddisfazione per ciò che, nel passato e nel presente, si offre come interpretazione complessiva della realtà.

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