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Campagna in fiamme

Campagna in fiammeUna scena da Dolgaya Schastlivaya Zhizn di Boris Khlebnikov

Pesaro 49 In concorso Dolgaya Schastlivaya Zhizn di Boris Khlebnikov che indaga sulla Russia fra passato e presente

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 27 giugno 2013

Un misterioso film messicano apre il concorso della 49a Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, Halley di Sebastian Hofman, apparentemente con tutte le caratteristiche di un film horror, in linea con la contemporanea estetica del disgusto per poi virare sul versante del realismo, dell’ironia, della solitudine del vivere quotidiano della metropoli. Un uomo in progressiva decomposizione, più simile a uno zombi è il protagonista, rifiuta qualsiasi bisogno terreno, muore e si riprende alla morgue mentre intorno a lui ferve la società messicana al suono delle cumbie, del sesso, dell’ostentazione dei muscoli nella palestra dove per colmo di ironia lavora. Hofman è un artista e allievo di Todd Solondz.

Nelle recenti edizioni grande attenzione è stata dedicata al cinema russo e Boris Khlebnikov è stato invitato a presentare come film d’apertura Dolgaya Schastlivaya Zhizn (2013, Una vita lunga e felice), che ci riporta alla memoria la grande tradizione dei film rurali dalle trattoriste ai kolkhoz, ma in chiave capitalistica: Sasha il protagonista, , fissato nel suo individualismo senza scampo, potrebbe vendere allo stato la sua terra e andarsene finalmente a vivere in città, ma i contadini lo convincono a salvare l’azienda e lui ci ripensa riprendendo in mano la situazione resa difficile da una potente impresa che vuole impadronirsi delle terre e dai contadini che si tirano indietro.

Khlebnikov ha compiuto due anni di ricerche per conoscere la situazione agricola del paese: «È stata un’utopia di Gorbaciov e di Eltsin – dice – chiudere i kolkhoz e favorire al loro posto la nascita delle piccole imprese che non avevano nessuna possibilità di entrare in concorrenza con i grandi imprenditori. Nessuna persona che sappia di affari si metterebbe a investire in questo campo. Questo non significa che nei negozi manchino frutta, verdura o carne, ma per venti anni almeno la gente ha smesso di lavorare in campagna e non sa più farlo. Lo stato semplicemente si è dimenticato di loro.Penso che in Russia non ci sia economia di mercato come si intende in occidente, è passato troppo poco tempo. C’è piuttosto una situazione di «bracconaggio», nella pesca, nella raccolta delle fragole e negli strati più alti, del petrolio. È difficile fare economia sana per le piccole imprese. Nel mio film non c’è divisione tra buoni e cattivi, quello che sembra essere il cattivo in realtà è più capace, non vede interesse nell’agricoltura, altrimenti investirebbe in quel campo. Del resto il film rappresenta la società russa di oggi: la gente non crede né nelle forze dell’ordine né nella giustizia, la società è come una massa informe, non ci sono punti fermi. Io non credo al mito dell’anima russa, per me i russi sono uguali agli altri».

Resta la perplessità sull’assassinio nel finale: «Alla base del mio film c’è un conflitto che si sta verificando nel mio paese, sempre più persone risolvono torti subiti ricorrendo alle armi perché non c’è nessuno che li difenda. Si verificano conflitti sempre più numerosi tra chi vorrebbe lavorare e chi non permette di farlo». Un altro aspetto negativo dei paesi ex comunisti lo racconta Mira Fornay (che ha esordito alla Settimana della Critica con Foxes) nel durissimo My Dog Killer, dove affronta la vita, il comportamento degli skinheads.

L’intolleranza nei confronti degli zingari era tale anche sotto il comunismo, argomento sotto censura per i cineasti che solo di rado la nova vlna riuscì a sfiorare. Mira Fornay elimina ogni possibilità di riscatto in una società senza scampo morale, quasi una visione biblica di primigenio assassinio, la nascita stessa del male. Eppure, dice, non ha fatto che «mostrare» comportamenti, spostare in campagna quello che di solito è ambientato nelle città, proprio perché parte della sua famiglia proviene dalla campagna slovacca e i suoi amici d’infanzia sono diventati skinheads (oggi per lo più «cambiati», sottolinea) ed è per questo riuscita a farsi mostrare usi e costumi del branco, persone senza coscienza politica, che vogliono solo far parte di un gruppo spalleggiati da una società tanto religiosa quanto razzista.

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