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Camoin, il lassista in sensazioni colorate

Camoin, il lassista in sensazioni colorateCharles Camoin nel suo atelier di Saint-Tropez, 1961, Archives Camoin

A Parigi, Musée de Montmartre, "Charles Camoin.Un fauve en liberté", a cura di Assia Quesnel e di Saskia Ooms Marsigliese e montmartrois, è adorabile nella sua «distrazione»: conosce e venera Cézanne, poi Renoir, è intimo di Matisse, ma...

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 17 luglio 2022
Charles Camoin, “Femme à la voilette”, part., 1905, coll. priv.

Le sensations colorées hanno determinato l’intero percorso di Charles Camoin. Usa lui stesso la definizione per due volte nel Journal. Attenzione!, come puntualizzò Alain Madeleine-Perdrillat in occasione della grande antologica Losanna-Marsiglia 1997-’98, non sensazioni colorantes, che sarebbe l’acquisizione del colore strutturante come formulata da Cézanne, le pére a cui Camoin, giovane di 22 anni in servizio di leva, si era condotto, a Aix-en-Provence, nell’autunno del 1901, per poi tornarvi, a più riprese, fino al 1904. Restano sette lettere del maestro, paterne, fortemente morali, perentorie nei consigli professionali ma di insicura teoria: studiare Rubens e Veronese come si farebbe d’après nature… Camoin adora Cézanne, sempre lo adorerà; non riesce, però, a perseguire la disciplina obiettivante che è la sua lezione, egli sente ancora con l’occhio come gli impressionisti, e travasa questo sentire nel nuovo fare sintetico, accorciato, dei fauves.
Ma anche qui: è Un fauve en liberté, come titola il Musée de Montmartre la mostra a Camoin dedicata, fino all’11 settembre, per le cure di Assia Quesnel, responsabile degli Archives Camoin, e di Saskia Ooms, conservatrice del museo. «Il prode Marsigliese», così lo chiamava Cézanne, è un adorabile lassista, abbastanza insoddisfatto di sé ma perfettamente consapevole dei propri limiti, entro i quali riesce ad assaporare la gioia di vivere, che è orchestrazione delle sensazioni colorate secondo i mezzi più aggiornati ma fuori da ogni pretesa dottrinaria. Ammiratore di Renoir (e Fragonard), quando, nel novembre 1918, recatosi a Cagnes con Matisse, vede le trasparenze dorate della sua maniera ultima, non ha nulla da opporre, alcun novecentismo, e – a quasi quarant’anni – si lascia catturare.
Con questa mostra Camoin torna nella sua Montmartre, proprio in quel 12, rue Cortot dove, come diversi suoi colleghi e lo stesso Renoir, tenne atelier: dal 1908 al 1910. Dalla sua Marsiglia, nel gennaio 1898 era giunto a Parigi, diciottenne, appena in tempo per incrociare, alle Beaux-Arts, l’insegnamento democratico di Gustave Moreau, che morì appena quattro mesi dopo il suo arrivo. Qui conobbe, però, la temperie del rinnovamento, divenne amico di Marquet, che presto gli fece conoscere Matisse, fresco del viaggio di nozze in Corsica. Si ritrovarono per qualche tempo alla libera Académie Camillo, dove ‘correggeva’ Eugène Carrière. Si esercitavano insieme sugli antichi maestri del Louvre e, al Luxembourg, alle Tuileries, al Bois de Boulogne, inseguivano il motif, così come in strada, schizzando a inchiostro la vita ordinaria.
Dopo l’intermezzo militare e cézanniano, e qualche anno di va-e-vieni – tra questi il fatidico ’05 della cage aux fauves –, Camoin si installò definitivamente a Montmartre nel 1907 con sua madre Marie. Una girandola di domicilî, segno evidente di precarietà e indigenza, fino a che, nel ’25, non si stabilizza, insieme alla moglie Charlotte Prost (Lola), al 2 bis, avenue Junot, atelier occupato sino alla fine dei suoi giorni, maggio 1965, e dove, qualche tempo prima, lo visita e interroga, come «le plus ancien citoyen de la Butte», Jean-Paul Crespelle, refertandone in Montmartre vivant.
Lirico, con i colori liquidi e i toni intermedi (rosa, malva), il segno che suggerisce arabescando più che determinare plasticamente – Femme à la voilette, 1905, una gemma! –, Camoin ama nondimeno creare per via di rapporti cromatici suggestivi effetti spaziali: segno distintivo, in certi paesaggi, una fascia d’ombra sul primo piano, alla base, che contrasta con la luminosità assolata della scena e la stacca in profondità (Port de Toulon à la barrière, 1904-’05; Marocains dans une rue, 1913). Ha ragione dunque Alix Aigret, nel saggio in catalogo, a leggere la parabola di Camoin oscillante fra musica e architettura, binomio preso in presto da Valéry.
L’intimità con Matisse, testimoniata dall’epistolario che editò nel ’97 Claudine Grammont, non implicava adesione sul piano operativo, se non per generiche nozioni di corrente o per motivi esterni, p. e. la finestra aperta sul mare. Come nel caso delle altre fauvettes Puy e Manguin, quasi da subito è intesa la differenza di sfera rispetto a Matisse, l’impossibilità di un paritario vis-à-vis sperimentale. In Marquet, affettivamente il più vicino a Camoin (che lo ritrae nel sorprendente ritratto à la Cézanne del Pompidou, 1904-’05), questa differenza è temperata da un più risoluto connotato stilistico: l’immediatezza sintetica japonisant fa del miope bordolese un significativo caso intermedio. Più aperto e leggero, Camoin si avvicina ora a questo ora a quello dei compagni, e verso il 1908, come documenta Notre-Dame e le pont de l’Archevêché, ‘fa’ Marquet. Ma lo sviluppo di questo ‘fare’ Marquet lo porta, circa il ’10, a una maniera brusca, quasi espressionista, palette ridotta drasticamente, prepotenti neri di contorno: ne testimonia una serie di paesaggi còrsi, realizzata accanto alla pittrice, e compagna, Émilie Charmy, con cui condivide il soggiorno nell’isola napoleonica e quell’opzione di stile. Qui Camoin somiglia anche, curiosamente, all’altro fauve del Midi (Nîmes) Auguste Chabaud.
Come dice la scelta di uno di questi paesaggi per lo strillo della mostra, potrebbe essere una strada, ma, troppo contrassegnata, per Camoin si tratta di una crisi. Ne fuoriesce con il recupero della luce mediterranea, il viaggio a Tangeri del gennaio ’12 insieme a Matisse. Questo tipo di luce, qui più abbagliante e contrastiva, è una funzione connaturale per l’artista nato a Marsiglia «in un mastello di colori», da una famiglia con «una impresa di decorazione», e che fece poi di Saint-Tropez la sua dimora primavera-estate. Il Mediterraneo, in Camoin, significa, più che ardore sperimentale, allentamento e persuasione. Nel villaggio delle tartane con le vele rosse si era recato una prima volta nel ’05 su invito di Signac, un anno dopo il celebre soggiorno «divisionista» di Matisse, che, al contrario, si pone come momento fondativo dell’arte nuova.
Anche negli anni propriamente fauves Camoin si sottrasse agli eccessi plastico-cromatici, alla frenesia di combinazioni del quadro-choc di Matisse nella fatidica sala VII dell’autunno ’05, La femme au chapeau. Questa stessa femme, che è poi Amélie moglie di Matisse, Camoin l’aveva ritratta un anno prima faisant de la tapisserie, dove la tapisserie sembra sì una tavolozza di colori del tubetto, ma l’allure implica un più ‘antico’ intendimento, quasi di nabi travestitosi da fauve.
Questa maggiore convenienza è forse all’origine di un discreto e inaspettato successo commerciale già nelle prime fasi. «Le Benjamin Camoin est, pour l’instant, celui qui, pour la vente, vient en tête»: chi scrive è Berthe Weill, la piccola, intrepida e occhialuta gallerista alla quale le ricerche di Marianne Le Morvan, che prepara per il 2024 una mostra New York-Montreal, hanno restituito centralità nel mercato delle avanguardie parigine di primo Novecento. Come mai Ambroise Vollard neanche la cita nei Souvenirs d’un marchand des tableaux? Perfidia? Misoginia? Rispetto ai fauves, il merito della Weill è aver anticipato, con una rassegna nell’aprile del ’05 (a cui si riferisce la frase sopradetta), la cage che in autunno, al Salon, impose fragorosamente il fenomeno. Le Morvan azzarda anzi, con validi argomenti, che l’ensemble nel piccolo locale al 25, rue Victor Massé (Montmartre) sia stato di suggerimento per l’accurata orchestrazione degli organizzatori del Salon.
Berthe Weill fu per Camoin il trampolino: era tra i suoi preferiti, lo espose undici volte dal 1904 al ’13, ma nell’08, impossibilitata a garantire i suoi artisti, se lo fece soffiare dall’uomo nuovo D.-H. Kahnweiler. Strano! è l’anno in cui questi, con la mostra di Braque, pone all’attenzione il cubismo, che diventerà la vera bestia nera di Camoin.
Vedere la scena occupata da istanze speculative e cerebrali a cui non era in grado di corrispondere lo rese per un certo periodo, quando la giovinezza ancora morde e pretende la prima fila, sommamente insofferente. Nel giugno 1914, in vista di partire soldato, fece a pezzi ottanta tele del suo atelier. Cacciatele nella poubelle, non poteva immaginare che il netturbino le recuperasse per destinarle alle pulci. Di dove transitarono sul mercato maggiore, dotato di accorti restauratori. Nel marzo 1925 quattro di quelle tele rispuntarono da Drout, alla vendita Francis Carco. Camoin intenta un processo e lo vince: un processo clamoroso, che ancora ‘fa’ giurisprudenza nel campo della proprietà intellettuale. In mostra ne compaiono altri tre, di quei dipinti considerati da Apollinaire fra i più riusciti di Charles Camoin: il pittore che inseguiva, come scrisse di sé, «l’umile emozione… nel suo candore originario davanti ai misteri della vita e ai miracoli della natura».

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