Camila Sosa Villada, scrivere scegliendo il proprio centro
GEOGRAFIE In Italia con Sur il libro «Sono una pazza a volere te» dell’autrice argentina. Una raccolta di racconti dove via via il realismo si stempera entrando nel nuovo gotico latinoamericano. La sua opera è connotata da una solida coerenza, che accoppia all’esplicita crudezza un sottile lirismo, uno humor sfacciato, personaggi tangibili e carnali
GEOGRAFIE In Italia con Sur il libro «Sono una pazza a volere te» dell’autrice argentina. Una raccolta di racconti dove via via il realismo si stempera entrando nel nuovo gotico latinoamericano. La sua opera è connotata da una solida coerenza, che accoppia all’esplicita crudezza un sottile lirismo, uno humor sfacciato, personaggi tangibili e carnali
In una poverissima casa dell’Argentina rurale, non lontano da Cordoba, un bambino di quattro anni scrive per la prima volta il proprio nome come gli ha insegnato il padre, orgoglioso della sua precocità. L’orgoglio, però, si trasforma rapidamente in collera, perché il piccolo Cristian Omar si rifiuta ostinatamente di fare pipì in piedi, è una «femminuccia», un mariconcito che sin dai suoi primi anni avrà, per mano paterna, un saggio di quello che lo aspetta in futuro: botte, paura, disprezzo e rifiuto.
È con questa immagine che comincia El viaje inutil: trans/escritura, testo a metà tra saggio e autobiografia con cui Camila Sosa Villada – nata nel 1982 a La Falda, nel cuore della provincia argentina – ha fatto il suo ingresso nel mondo editoriale, dopo aver conosciuto il successo come attrice e drammaturga.
SENZA ESSERE L’UNICA, Camila è oggi l’esponente più nota di una letteratura che – nonostante etichette e tassonomie rischino di essere non solo riduttive, ma fuorvianti – si usa definire transgenerica e che in America latina si è affermata con forza soprattutto nell’ultimo decennio, potendo inoltre contare su un lignaggio illustre in cui sono inclusi nomi come quello di José Donoso, di Manuel Puig e del cubano Severo Sarduy. A differenza che in passato, però, a prendere oggi la parola in prima persona sono in primo luogo autori trans e travesti (i due termini non sono interscambiabili), stanchi di essere storicamente condannati al silenzio. La loro produzione, così abbondante da giustificare la nascita di case editrici ad hoc, è in buona parte da ricondurre alla testimonianza e al memoir, ma esistono anche scritture di carattere inequivocabilmente letterario, che abbinano l’etica all’estetica e gli echi autobiografici alle istanze politiche, come ha dimostrato il cileno Pedro Lemebel con le sue cronache e con l’ormai celebre romanzo Ho paura, torero (Marcos y Marcos, 2004).
Se Sosa Villada ha conquistato una popolarità internazionale e il premio Sor Juana Inés de la Cruz, destinato alle autrici di lingua spagnola, lo deve al suo primo romanzo, Le cattive (Sur, 2021), che parla di un gruppo di prostitute trans e degli anni difficili vissuti tra loro dall’autrice.
Ora, dopo un secondo romanzo meno conosciuto ma quanto mai interessante (Tesis sobre una domesticación, su un tentativo di «normalità» familiare che si rivela impossibile e castrante), arriva in libreria Sono una pazza a volere te (Sur, pp. 224, euro 17,50): nove racconti tradotti benissimo da Giulia Zavagna, dove rintracciamo qualche inevitabile sprazzo autobiografico – in Grazie, Defunta Correa, per esempio, Camila racconta il pellegrinaggio dei suoi genitori al tempio di una santita eterodossa –, nonché la conferma di una scelta: scrivere a partire da quello che considera il suo «centro», e che altri hanno l’abitudine di chiamare «margine». Un concetto, questo, che Sosa Villada rifiuta con decisione, affermando: «Molti definiscono marginale la mia scrittura, come se i miei personaggi fossero fuori della società. Oltre ai travestiti e agli omosessuali ci sono i miei nonni che erano analfabeti, io che ho frequentato una scuola rurale e sono vissuta in povertà, senza neppure la luce elettrica. Questi personaggi sono centrali nella vita di moltissima gente. Per me quelli che a volte chiamano margini sono il centro…».
PERCHÉ CAMILA non dimentica mai che è figlia di braccianti, che ha conosciuto la fame, che per sopravvivere è stata per qualche anno prostituta e ha conosciuto la violenza in tutte le sue forme, e che, se il teatro e la letteratura l’hanno salvata, per salvare tutti ci vuole ben altro («Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è la giustizia economica (…). E a quella non provvede la letteratura»).
È anche grazie alla consapevole fedeltà al suo «centro» che l’opera di Sosa Villada è connotata da una solida coerenza, che accoppia all’esplicita crudezza un sottile lirismo, uno humor sfacciato, scintille di un camp volutamente melodrammatico, personaggi tangibili e carnali. E se da una parte l’autrice è decisa a rivendicare un peculiare modo di essere, di sentire e di vedere il mondo, dall’altra appare incontestabile la dimensione universale dei suoi intrecci narrativi, crudeli ma non tristi (tranne, forse, per Non restare troppo a lungo nella polvere in cui un bambino poverissimo, abbandonato dalla madre e in balìa di un padre violento, trova conforto in un cagnetto color cannella).
I PRIMI SEI RACCONTI si svolgono in ambienti di quotidiana e consueta violenza, riscattata a volte da un gesto ironico, da un furto vendicativo o da una singolare tenerezza – come quella che si stabilisce tra due trans latine e un’immaginaria ma attendibile Billie Holiday che canta I’m fool to want you –, ma il realismo si stempera fino a scomparire nelle ultime tre storie, che si potrebbero inscrivere nel nuovo gotico latinoamericano (così brillantemente rappresentato dalle boliviane Liliana Colanzi e Giovanna Rivero, o dall’argentina Mariana Enríquez), ma evocano anche un romanzo di Sarduy, il magnifico e dimenticato Cobra (Einaudi 1976).
LA SCRITTURA di Sosa, dotata di quella apparente e spontanea «semplicità» che è frutto di un lungo lavoro e infinite limature, è quasi l’opposto della fantasmagorica prosa neobarocca di Sarduy, ma in Sei tette, il bellissimo racconto distopico che chiude il volume, ritroviamo la stessa coniugazione di piacere e dolore, l’idea di metamorfosi intesa sia come definizione di sé, sia come atto supremamente estetico, e anche la messa in scena di una nascita impossibile.
In Cobra, le piaghe del corpo trans generano una nuova creatura (il bianco nanerottolo Pup), mentre Sosa immagina che sei minuscoli cagnetti vengano partoriti analmente da una ragazza travesti, messa incinta da un uomo privo di testa, un soave e silenzioso «decapitato». E l’antica figura dell’uomo incinto, di cui favoleggiano il mito e le fiabe folcloriche (e che qui allude forse a un inestinguibile desiderio di «famiglia», rivista secondo tutte le possibili forme e accezioni), consente a Sosa di stabilire una significativa prossimità tra umano e animale, come già in Le cattive, dove le travestite diventano lupe o uccellini, e come in un altro racconto, La Casa della Compassione, in cui un convento di suore è votato al passaggio dalla forma umana quella canina, e viceversa. Un’abolizione delle gerarchie, una trasformazione estrema che denuncia, facendosene beffe, il controllo biopolitico dei corpi.
Camila Sosa Villada sa raccontare mutazioni, ferite, patimenti, ferree solidarietà e allegrie quasi carnevalesche, valicando di molto i confini consueti della una trans/scrittura: la sua è innanzitutto letteratura, ma una letteratura che conserva la propria specificità e ci tiene ad affermarsi estranea a tutti i luoghi comuni, compresi quelli più politicamente corretti. Camila, infatti, ci offre nuovi spunti di riflessione ricordandoci che «Dire ’donne trans’ o ’donne transgenere’ igienizza una parola, travesti, che era un insulto e che abbiamo cominciato a rivendicare. È necessario pensarci in un altro modo, invece di chiedere in prestito alle donne un’identità che non sappiamo come sia. Una domanda che mi fanno di continuo è: ti sei sempre sentita donna? E io rispondo: come si sentono le donne? Posso dirti, invece, che mi sono sempre sentita travesti (…). Un tempo non c’era un linguaggio per dirlo, non c’era un modo per dire quello che mi succedeva: le donne erano a portata di mano e le ho prese in prestito, ma adesso dico che è ora di passare ad altre forme di esistenza e di lotta. Noi abbiamo altri problemi, che a volte possono coincidere con quelli delle donne e a volte no. Ma le lotte sono sempre imparentate: poveri, travestiti, sfruttati, omosessuali, donne, si tratta comunque di costruire un mondo migliore. O, almeno, di essere lasciati in pace».
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