Cameron, la realtà della pittura vittoriana
Julia Margaret Cameron, "Annie", 1864
Alias Domenica

Cameron, la realtà della pittura vittoriana

A Parigi, Jeu de Paume, "Julia Margaret Cameron. Capturer la beauté", a cura di Lisa Springer e Quentin Bajac Prozia di Virginia Woolf, pur aderendo al Bello ideale di Watts e gli altri, non poteva sottrarsi alla natura analogica del suo mezzo, la fotografia: ne uscì fuori una fascinosa mescolanza...
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 14 gennaio 2024

Bloomsbury guardava ai vittoriani, più o meno eminenti, con un atteggiamento di ironico distacco. La rottura con la mentalità benpensante, moralista, patriarcale e sessuofoba del lunghissimo tempo della regina Vittoria si era consumata, e il gruppo formatosi nella prima decade del Novecento nel quartiere residenziale poco a nord del British Museum trovò lo spazio e il coraggio di perseguire una inedita libertà in ogni aspetto della vita intellettuale, artistica e sessuale. Per ironia della sorte, il luogo fondativo del gruppo di Bloomsbury fu il salotto di Virginia, Vanessa e Adrian Stephen, figli di Sir Leslie, monumento della cultura vittoriana.

La consapevolezza dell’acquisito distacco dai valori delle generazioni precedenti ha fatto sì che Bloomsbury ci abbia regalato alcuni magnifici ritratti di grandi vittoriani, descritti con la bonomia e il sense of humour con cui si ricordano le gesta degli antenati eccentrici. Così succede quando Virginia Woolf parla della celebre fotografa Julia Margaret Cameron, del cui lavoro il Musée du Jeu de Paume di Parigi ospita una magnifica retrospettiva itinerante ricca di un centinaio di immagini (Julia Margaret Cameron Capturer la beauté), partita dal Victoria & Albert Museum di Londra, curata da Lisa Springer e, per la tappa parigina, da Quentin Bajac (fino al 28 gennaio; catalogo Silvana Editoriale).

Cameron era una prozia materna di Virginia; la scrittrice ne descrive con spirito le bizzarrie, presenti ben prima che Julia Margaret Pattle – nata nel 1815 in India e andata sposa nel 1838 a Charles Hay Cameron, di vent’anni più vecchio di lei – decidesse, nel 1864, di dedicarsi alla fotografia, complice la macchina fotografica regalatale dalla figlia Julia, morta di parto anni dopo. Da quel momento, «la carbonaia fu trasformata in camera oscura, il pollaio in atelier, i barcaioli in altrettanti Re Artù, le ragazze del villaggio in altrettante regine Ginevra. Tennyson fu ammantato di coperte e il capo di Sir Henry Taylor fu cinto di orpelli, mentre la cameriera posava per il suo ritratto e gli ospiti rispondevano al campanello» (cito dalla traduzione di Flora de Giovanni).

Virginia Woolf qui ironizzava sui tableau vivant cui si dedicò con grande impegno Julia Cameron, che si era affacciata alla pratica dell’arte visiva nello stesso anno in cui Frederick Leighton diventava membro della Royal Academy. Grazie a lui, a Edward Poynter, a Lawrence Alma-Tadema e a George Frederick Watts (del quale ultimo Cameron fu molto amica) il clima della pittura ufficiale inglese cambiò e, da una dimensione narrativa che risentiva della pittura di genere olandese, andò verso una monumentalità classica all’italiana (così riferisce Quentin Bell, in Victorian Painters). Dalla vivacità del racconto si passava al culto del bello ideale, del quale Julia fu convinta sostenitrice.

Eppure nei tableaux vivants di Cameron c’è qualcosa di diverso dalla pittura, e provo a spiegarlo con un esempio: quando Gustave Courbet vide il Cristo morto con angeli di Édouard Manet (1864) si rivolse a brutto muso al collega, chiedendogli con sarcasmo come facesse a dipingere gli angeli senza averne mai visto uno nel mondo reale. L’angioletto a cui Julia fa indossare «pesanti ali di cigno», invece, è proprio quello che non sono gli angeli di Manet: una creatura vista nella realtà, un bambino vero, appena camuffato, che ci rivolge uno sguardo tra l’esausto e l’annoiato. Benché Cameron aderisse con tutto il cuore ai valori della pittura «alta» dell’età vittoriana, infatti, non poteva sottrarsi alla natura intrinseca della fotografia (analogica): quella di essere l’impronta luminosa di qualcosa «che è stato lì», di fronte all’obiettivo.

Julia Margaret Cameron, “J.F.W. Herschel”, 1867, celebre astronomo

Nella ri-mediazione in fotografia della pittura vittoriana, quindi, le qualità allegoriche e altisonanti di essa si depotenziano; e così la bella cameriera di casa trasformata in Madonna si muove in bilico fra due mondi, quello dell’arte alta e quello della realtà, con una tensione ancora capace di parlarci, mentre i quadri di Watts non ci dicono più quasi nulla. Per una volta, quindi, dissento da Quentin Bell, figlio di Vanessa, la sorella pittrice di Virginia Woolf, e fine critico d’arte, che definiva «deplorevoli» i tableaux vivants della sua ava. Sono però totalmente d’accordo con lui quando definisce Cameron come la più grande ritrattista dell’età vittoriana. In mostra si susseguono le fotografie di Charles Darwin, Alfred Tennyson, Thomas Carlyle, J.F.W. Herschel, Henry Taylor: le figure sono viste in un primissimo piano di cui Cameron fu l’inventrice e formano una galleria di formidabili intellettuali vittoriani che l’altrettanto formidabile signora conosceva e frequentava, di cui perciò capiva l’indole ed era in grado di restituirla nelle sue fotografie.

Talvolta Cameron si aiutava con pose eloquenti (ad esempio gli occhi al cielo dell’astronomo Herschel) o con un costume rimediato lì per lì (Tennyson drappeggiato di coperte e trasformato in «The Dirty Monk»). Più spesso, tuttavia, l’autrice preferiva giocare sul confronto diretto tra la persona rappresentata e la macchina fotografica, come nel caso del ritratto di Henry Taylor dall’immensa barba che emerge da uno sfondo buio, con lo sguardo rivolto di lato verso qualcosa che non vediamo.

Se il primissimo piano nei ritratti è frutto di una scelta stilistica deliberata, altri aspetti tipici delle fotografie di Cameron sono episodi di serendipity. Il fuori fuoco e le tracce dei reagenti chimici sono imperfezioni tecniche inizialmente casuali che dapprincipio l’autrice, con intelligenza, asseconda, e poi, via via, controlla sino a trasformarli in tratti caratterizzanti del suo linguaggio. Si tratta di «perturbazioni visive» (Bajat) che fanno sentire la presenza del mezzo fotografico allo stesso modo in cui il tocco del pennello nella pittura moderna, dalla metà dell’Ottocento in poi, fa percepire la grafia inconfondibile dell’artista nell’atto della creazione. Il flou e le macchie nelle immagini di Cameron sono aspetti autoriflessivi anticipatori della sensibilità novecentesca. Meglio però non fare di lei (come è successo) la Cindy Sherman dell’età vittoriana: Julia era eccentrica ma non ribelle, e aderiva con convinzione ai canoni estetici del suo tempo.

Nel 1875, i coniugi Cameron lasciavano Londra e si imbarcavano per lo Sri Lanka, per stare vicino ai figli: nella quantità di bagagli che caricarono sulla nave Woolf nomina due bare, casomai localmente ne fossero a corto, e una mucca. Julia non tornò; la uccise in pochi giorni, nel 1879, un’infezione fulminante. Negli ultimi anni, trascorsi lontano dall’Inghilterra, Cameron lavorò poco, vista la difficoltà di procurarsi l’occorrente, ma qualche fotografia riuscì ancora a farla. Sono ritratti di gente del luogo, un po’ atteggiata, come nel Gruppo di contadini del Kalutara (1878), dove, ancora una volta, la retorica dei gesti (il vecchio dalle mani intrecciate, la ragazzina con una mano sul petto e l’altra tesa a ricevere fiori da un giovane alla sua destra) è surclassata dalla potenza dell’evocazione di figure esotiche da un passato lontano.

Julia era consapevole della capacità specifica del mezzo fotografico di raccogliere e conservare memoria di queste persone, se si prese il disturbo di annotare con cura, in una didascalia che accompagna l’immagine: «La bambina ha dodici anni; il vecchio dice di essere suo padre e di avere più di cento anni». La dodicenne e il centenario sono parte anch’essi della grande «famiglia degli umani» che la fotografia, fin dalle origini, si è data il compito di esplorare.

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