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Rubriche

Cambiare il mondo dalla base

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 9 mesi faEdizione del 23 febbraio 2024

Nel 1901 «L’Asino», il settimanale politico e satirico d’ispirazione socialista diretto da Gabriele Galantara e Guido Podrecca, indisse un concorso per la traduzione italiana del testo francese de L’Internationale. I versi, scritti a Parigi da Eugène Pottier (1816-1897) nel 1871 durante i giorni esaltanti della Comune, erano stati musicati, quasi vent’anni dopo, nel luglio 1888. Per incarico di Gustave Delory, esponente del partito operaio francese, la musica fu composta da Pierre de Geyter (1848-1932) un tempo operaio ferroviario a Lille, poi nominato direttore de La Lire des Travailleurs la scuola musicale di quella città. Da allora quel canto si diffonde in Europa scandendo i passi dei lavoratori in corteo; si leva nelle strade e nelle piazze a dar voce alle lotte operaie; diviene l’inno ufficiale della Seconda Internazionale e, poi, dal 1917 al 1941, inno nazionale dell’Unione Sovietica.

La traduzione italiana prescelta da «L’Asino» era firmata con lo pseudonimo «E. Bergeret» che, fin da allora, non è stato negli anni possibile sciogliere con sufficiente certezza. Più che di una traduzione, se non letterale tuttavia aderente all’originale, sembra opportuno parlare di un rifacimento, fedele sì nello spirito al testo di Pottier, ma, sovente anche di molto, discosto dalla lettera.
Nella prime due strofe Pottier si rivolge ai «dannati della terra» e ai «forzati della fame», li chiama a raccolta mentre «la ragione ribolle nel suo cratere» ed erutta per cancellare definitivamente il passato: è «dal suo fondamento che il mondo cambia (le monde va changer de base)»; se ora «noi non siamo niente, saremo tutto».

Riporto la ‘traduzione’ di Bergeret: «Compagni avanti il gran partito/noi siamo dei lavoratori./Rosso un fiore in petto c’è fiorito/una fede ci è nata in cuor./Noi non siamo più nell’officina,/entro terra, dai campi, al mar/la plebe sempre all’opra china/senza ideale in cui sperar». La plebe, i dannati della terra costretti alla fame, si è fatta classe e si è organizzata in partito.
Non procedo nel confronto delle strofe successive. Mi limito a sottolineare che il dettato del 1901 differisce dall’originale del 1871 non solo, appunto, nella lettera, ma, pur mantenendone, come si diceva, lo spirito, è invece, se così si può dire, aggiornato nel concetto. E, segnatamente, nel passaggio dai ‘dannati della terra’ che, come un vulcano erutta, insorgono, alla ordinata organizzazione della lotta condotta nei termini della ‘forma partito’. Ma tant’è. Mi soffermo invece su un verso del testo originale che Bergeret trascura e lascia cadere. Mi riferisco a quel «le monde va changer de base».

Si sa che negli anni Settanta Franco Fortini si impegna in una nuova traduzione italiana de L’Internationale e credo valga la pena verificare come egli abbia risolto questo punto. Trascrivo la prima strofa e il refrein: «Noi siamo gli ultimi del mondo./Ma questo mondo non ci avrà./Noi lo distruggeremo a fondo./Spezzeremo la società./Nelle fabbriche il capitale/come macchine ci usò./Nelle scuole la morale/di chi comanda ci insegnò.//Questo pugno che sale/questo canto che va/è l’Internazionale/un’altra umanità./Questa lotta che uguale/l’uomo all’uomo farà/è l’Internazionale./Fu vinta e vincerà»

Si vede bene che Fortini fissa proprio su quel «monde» (che a giudizio di Pottier viene rovesciandosi nel suo fondamento) il punto d’abbrivio della sua elaborazione del testo ottocentesco (ancora una ‘non traduzione’, ma una riscrittura del canto francese, pure questa di Fortini). Se secondo Pottier va preso atto che il mondo va cambiando fin dalla base, Fortini affida alla volontà degli «ultimi» l’azione che spezza alla radice il perno, la giuntura che ha retto finora il mondo. La seconda strofa di Fortini può dichiarare pertanto che gli «ultimi del mondo» sono «gli ultimi di un tempo/che nel suo male sparirà».

Richiamo un antecedente illustre de «le monde va changer de base» del comunardo Pottier. Per invitare ad ulteriori riflessioni, mi piace rammentare nella traduzione di Eugenio Montale le parole che Shakespeare pone sul labbro di Amleto: «Il mondo è fuor di squadra: che maledetta noia,/esser nato per rimetterlo in sesto!».

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