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Calzolari appartato tra monocromi e colature

Calzolari appartato tra monocromi e colaturePier Paolo Calzolari, "Mangiafuoco", 1979, collezione privata, foto Michele Alberto Sereni

A Napoli, Museo Madre, Pier Paolo Calzolari, "Painting as a butterfly", a cura di Achille Bonito Oliva e Andrea Viliani L’antologica sulla pittura dell'artista bolognese mette in luce un aspetto fragile e sognante della sua produzione, a fronte delle opere «poveriste»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 14 luglio 2019

Nell’ampia Sala Re_Pubblica del MADRE, la temperatura, pur gradevolmente condizionata, aumenta per qualche istante, tra gli ooh di stupore delle persone assiepate al piano terra del museo d’arte contemporanea di Napoli. Yassin Kordoni si muove con eleganza davanti a una lunga tela orizzontale, ricoperta da cinque strati di un poroso pigmento rosso vivo e, mentre tutti trattengono il fiato, lui emette un soffio infuocato. Il calore si espande ma la combustione dura meno di un secondo e tutto ciò che rimane, a parte la labile immagine retinica dell’esplosione, è una traccia fuligginosa sulla superficie color carminio. Pier Paolo Calzolari presentò per la prima volta Mangiafuoco nel 1979 e di questa sua performance rimangono molte fotografie, scattate in altri periodi e luoghi diversi. Si tratta, insomma, di una di quelle opere immediatamente identificabili nel percorso di un artista e, in un certo senso, tranquillizzanti, riferite a un contesto del quale si conoscono le coordinate. Invece, Painting as a butterfly, mostra a cura di Achille Bonito Oliva e Andrea Viliani, parte da tutt’altro presupposto. Visitabile fino al 30 settembre, si tratta della prima retrospettiva dedicata all’opera pittorica di Calzolari, una pratica che, fedelmente e a bassa voce, ha accompagnato la sua produzione più conosciuta, quella ascrivibile alle installazioni e alle sculture di ghiaccio, sale, fuoco e neon, diventate manifesto dell’Arte Povera.

«Napoli non ha simpatia nei miei confronti e nemmeno io per lei», ha spiegato Calzolari, rievocando una storia scandita da nomi e occasioni che si intrecciano tra le pagine dei libri, le recensioni sulle riviste e i ricordi. Nella città partenopea, l’ultima sua mostra risale al 1977, a Villa Pignatelli, ma alcune sue opere erano state allestite anche nel 2011, proprio per il MADRE. Precisamente nella Chiesa di Santa Maria di Donnaregina vecchia, dove Germano Celant, che nel 1967 coniò la definizione di Arte Povera, ed Eduardo Cicelyn, allora direttore del museo napoletano, curarono Arte Povera più Azioni Povere 1968, progetto espositivo che rievocava l’omonima mostra agli Arsenali di Amalfi, presentata da Marcello e Lia Rumma e considerata il primo atto pubblico di quel movimento artistico che prometteva di riunire estetica e rivoluzione. Ad Amalfi Calzolari non c’era, anche se l’artista nato a Bologna, classe 1943, aveva già esposto, nello stesso anno e nel medesimo contesto artistico, alla Galleria La Bertesca di Genova. Sarebbe stato presente anche alla Kunsthalle di Berna, nel 1969, nell’ambito di When attitudes become form, altra mostra capitale, curata da Harald Szeemann, alla quale partecipò con il gruppo dei duri e puri dell’Arte Povera – Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Mario Merz, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio –, insieme ad altri concettuali e minimalisti europei e statunitensi, come Joseph Beuys, Carl Andre e Bruce Nauman. Oggi, l’apporto di Calzolari all’Arte Povera è noto e, oltre allo scritto del 1968 La casa ideale, considerato un enunciato essenziale per la teoria poverista, comprende lavori estesamente musealizzati, come le iconiche strutture giacchianti, installazioni enigmatiche, tra alchimia e meccanica, animate da una leggera brina bianca e sospese nel flebile brusio di un compressore.

Si ricostruisce, dunque, la mitologia di un’epoca durante la quale la sintassi di quelle che sarebbero state chiamate «grandi narrazioni» arrivò al massimo grado di espressione. E l’Arte Povera, forse non solo per l’Italia, può rientrare a buon diritto in questa categoria del racconto, avendo contribuito a definire, con una forma poeticamente concreta, i paradigmi concettuali dell’autunno caldo di operai e studenti, nobilitando il materiale industriale o di scarto – il carbone e l’acciaio che abbondano, per esempio, nella commovente e completissima mostra che la Fondazione Prada ha recentemente dedicato a Kounellis – e mettendo in evidenza i processi di produzione dell’artista-artefice. Il boom economico e la crescita urbana, i conflitti fondativi tra individuo e collettività, il rifiuto delle gerarchie, delle tecniche tradizionali e degli accademismi, la contaminazione tra sovversione e trasformazione, lo scambio tra l’arte e la vita, sono solo alcune delle dicotomie che si possono ritrovare tanto nelle pagine dei quotidiani dell’epoca quanto nelle coeve opere dei poveristi. Ed è così che la voce enciclopedica dell’Arte Povera continua a essere legata a doppio filo a quell’immagine politica e guerrigliera il cui declino, arrivati al turning point degli anni ottanta, appare inevitabile.
Ma una delle chiavi di interpretazione suggerite dalla contemporaneità, risiede nell’agilità della riappropriazione, nella rapidità con la quale i punti di vista si ribaltano. Allora, la scoperta di significato può avvenire anche tentando una strada inversa, dall’universale al particolare, approfondendo ciò che era silenzioso per riconoscere il valore di una singola parte del tutto. La mostra del MADRE compie questo percorso che, più che vertiginoso, è soprattutto storiografico, archivistico e di metodo, girando il lato nascosto, fissando l’incerto e lo sconosciuto in ciò che è stato raccontato e metabolizzato.

«Per me è un’emozione e una sorpresa vedere queste opere esposte insieme», l’epifania è avvenuta prima per Calzolari che, percorrendo i corridoi del museo napoletano in seconda persona, può distinguere un variopinto mosaico tra i suoi frammenti. «Questa mostra è nata tre anni fa, da una chiacchierata al bar dell’Hotel Bauer, a Venezia, e, se ha un senso, il senso è il coraggio di esporre questa storia», commentava Bonito Oliva. Più di settanta i dipinti in esposizione, molti dei quali provenienti da collezioni private, che si diffondono in un ordinato percorso cronologico che inizia dagli anni sessanta e si conclude con le opere più recenti, passando per le decadi Settanta, Ottanta e Novanta. Tra i monocromi blu, bianchi e dorati, le composizioni con inserti di oggetti, le colature e grumi, emergono, di volta in volta, gli influssi dell’Informale, dell’Astrattismo, della Pop Art e anche della Transavanguardia che, a inizio degli Ottanta, con la sua matrice postmoderna e il suo richiamo ufficiale alla superficie della pittura, sembrava proporsi come una colorata alternativa da seguire, dopo i sobri eroismi dell’Arte Povera. Eppure, nonostante i richiami serrati ad altre grandi narrazioni, si avverte quel piacere di osservare qualcosa di appartato, come svoltando l’angolo verso una dimensione finalmente fragile dell’uomo che, fatta di interessi sedimentati e repentini ripensamenti, costituisce la base organica, vitale, della persistenza della Storia

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