Che bel piccolo libro è uscito per i cento anni dalla nascita di Italo Calvino, scomparso purtroppo quando ne aveva vissuti appena poco più di sessanta. Bello intanto perché è il primo di una nuova casa editrice, Ventanas, creata da Laura Putti e, come è noto, la giornata si vede dall’alba: un formato e un disegno che invogliano, un bel progetto editoriale.
Bello, poi, il modo in cui Bernardo Valli parla di Italo (che è anche il titolo del volume, pp. 88, euro 14), perché, sia la biografia sia i ricordi sia le sei interviste a Calvino, non sembrano prodotti giornalistici, ma un privato colloquio fra l’autore del libro e lo scrittore, così naturale e consonante come è possibile solo quando si tratta di due amici. Che tali infatti sono stati per lungo tempo, da quando Calvino andò a vivere a Parigi, e cosi Valli, corrispondente prima del Corriere della sera, poi della Stampa e infine di Repubblica.

LEGGERE QUESTE PAGINE mi ha riportato a quegli anni in cui si andava spesso a Parigi (ora soppiantata da altre capitali) ed è capitato anche a me di unirmi talvolta alle loro conversazioni allo storico caffè de Flore, o alla Coupòle. Prima di allora Calvino l’avevo solo intravisto perché tutti e due eravamo iscritti al Pci. Lo ricordo già nel 1947, a quella grande festa che fu il primo Festival mondiale della gioventù a Praga.
E poi, con gratitudine, quando in un reportage per l’Unità sulle Brigate volontarie di lavoro giovanili – Le Omladinska Titova (gioventù di Tito) con cui anche andai a ricostruire la ferrovia Samac-Sarajevo distrutta dalla guerra- e Italo scrisse: «Se qualcuno crede si tratti di un lavoro simbolico si sbaglia di grosso». Si trattò infatti di una fatica bestiale, ma anche di una avventura bellissima. Non immaginavo che sarebbe diventato Italo Calvino, e però neppure lui credo intuisse che sarebbe andato ben oltre il giornalismo.
Della sua militanza nel partito comunista parla parecchio in una delle interviste pubblicate nel libro di Bernardo Valli, in particolare a proposito della distanza che subito si creò con la dirigenza comunista in merito all’arte, la pittura, la letteratura. In quegli anni gli attacchi che molti dirigenti comunisti ancora legati a una cultura tradizionale mossero contro i tanti più giovani intellettuali allora affluiti nel Pci assunsero toni talvolta persino «zdanovisti»: erano inorriditi dalle nuove avanguardie che nel frattempo si erano affermate in Europa. Anche lo stesso Togliatti, in effetti, sebbene questo non fosse proprio il suo stile, si lasciò andare a non poche rozzezze, come, in particolare, nel caso dello scontro con Elio Vittorini. Mi ha fatto piacere, rileggendo, come, sebbene il Pci lui l’avesse lasciato già nel 1957,non ci sia alcuna banalizzazione del conflitto che allora si aprì fra intellettuali e partito. Che lui, cioè, ne capisse le complessità e le ragioni. E che avesse compreso bene che personaggio unico era Togliatti – che non a caso usava dire del suo partito che era una giraffa per sottolineare la sua singolarità rispetto alle organizzazioni sorelle, diverso dal partito italiano tanto quanto quell’animale con quel collo e quelle gambe lunghe lunghe, era così anomalo rispetto agli altri animali.

E DEL RESTO – racconta Calvino a Valli – fu lo stesso Togliatti che, alla fine dei ’50, inaspettatamente nominò proprio Rossana Rossanda – che delle nuove correnti culturali era stata, con la Casa della cultura di Milano che dirigeva, il più importante veicolo che portò l’Europa in Italia – responsabile di una Commissione nazionale della cultura che allora, quando la cultura ancora contava, aveva un ruolo politico centrale.
Non solo: mi ha fatto gran piacere ritrovare in questi colloqui con Valli anche la consapevolezza, non diffusa, che egli aveva dell’importanza, decisiva, che ebbe allora la pubblicazione degli scritti di Gramsci, che il segretario del Pci curò personalmente e minuziosamente. Importanza per il suo partito, ma anche più in generale – dice – per la cultura italiana.
Calvino pur avendo lasciato il Pci, del resto, non si scostò mai del tutto, e anzi, anche in questi testi, di quella sua esperienza ribadisce quanto «corroborante» e «preziosa» sia stato per lui il rapporto con la classe operaia che quella esperienza gli aveva fornito.

MI SCUSO perché ho parlato troppo, scrivendo su questo libro, di Calvino comunista, quasi volessi marginalizzare la sua straordinaria produzione letteraria, di cui molto si parla in questo stesso volume. Ma non è solo perché quel suo pezzo di vita mi appartiene di più, ma anche perché credo che per lui non sia stato affatto né casuale né marginale: credo che la sua meravigliosa invenzione fiabesca e fantastica, l’aver scelto come titolo della prima sua lezione americana la parola «Leggerezza», non sia stata affatto dettato dal non aver preso in conto «il peso e l’opacità del mondo»; non dunque per eludere la fatica di prenderne atto, ma per affrontarlo meglio. «Noi non eravamo una generazione iconoclasta di “angry young people” – ho trovato in una sua citazione tratta non ricordo più da dove e riportata in un mio vecchio scritto – perché ha avuto più vivo il senso della partecipazione alla storia. Fonte di un impegno vissuto senza risparmio, con grande gioia e libertà – scrive -più che baldanza». Io infatti l’ho sempre pensato come partigiano, e sentito come compagno. Ma rampante. Un arricchimento, non una sottrazione.