Il trauma dei licenziamenti nel call center dalle mille virtù
Il caso Call&Call chiude la sede di Cinisello: fuori 186 operatori. Le Rsu protestano: "Sostituiscono i dipendenti storici grazie agli incentivi legati al Jobs Act". L'azienda, pedigree progressista e scelta di non delocalizzare, si difende: "Nessun rapporto con le misure del governo, è che non reggiamo più"
Il caso Call&Call chiude la sede di Cinisello: fuori 186 operatori. Le Rsu protestano: "Sostituiscono i dipendenti storici grazie agli incentivi legati al Jobs Act". L'azienda, pedigree progressista e scelta di non delocalizzare, si difende: "Nessun rapporto con le misure del governo, è che non reggiamo più"
La notizia è arrivata come una doccia gelata: Call&Call chiuderà la sede di Cinisello Balsamo, e questo comporterà il licenziamento degli attuali 186 operatori. Un fulmine a ciel sereno perché l’azienda di cui stiamo parlando non è una delle tante che nascono e muoiono, tipiche del settore, ma è uno dei gruppi storici nel panorama dei call center in outsourcing, con un pedigree di tutto rispetto: ampia campagna di stabilizzazioni sotto il ministro Damiano, welfare diffuso e buone relazioni sindacali, una delle prime imprese italiane a istituire, due anni fa, il congedo matrimoniale di 15 giorni per le coppie gay. E infine, l’impegno a non delocalizzare all’estero neanche un posto di lavoro. Il presidente Umberto Costamagna, cattolico progressista, è anche il numero uno di Assocontact-Confindustria.
Caratteristiche che certo non mettono al riparo dalla crisi, ma l’ultimo colpo a fatturati già pesantemente in perdita (perlomeno nella sede milanese) lo hanno dato gli incentivi per le assunzioni varati con la legge di stabilità, associati da marzo scorso ai contratti a tutele crescenti del Jobs Act: se i competitor erano già avvantaggiati dalle delocalizzazioni, adesso potranno ancor di più abbassare i costi del lavoro e vincere le gare. «Non siamo una multinazionale e non possiamo ripianare le perdite oltre un certo numero di anni, come abbiamo fatto finora – spiega al manifesto il presidente Costamagna – Ci siamo trovati costretti a chiudere: la procedura è già avviata, ma lasciamo una porta aperta ai sindacati. Si stanno esplorando almeno tre strade per trovare una soluzione, ma non è il momento di anticiparle».
Dai lavoratori arriva però un’altra lettura, e l’accusa è quella avanzata a tanti altri gruppi di call center proprio dopo il varo degli incentivi e del Jobs Act: per non restare indietro rispetto alle nuove imprese che possono acquisire forza lavoro a costi notevolmente più bassi, anche quelle più radicate e virtuose devono ricorrere agli incentivi, e l’assunzione di nuovo personale porta necessariamente con sé il turn over rispetto al vecchio, messo quasi fuori mercato. «Ci risulta che nei primi mesi dell’anno, grazie agli incentivi, sono state assunte una cinquantina di persone nelle divisioni della holding di La Spezia e Locri, società verso cui peraltro vengono indirizzate le nostre attuali commesse, a cominciare da Fiditalia e Ing Direct – spiega Luca Ferrara, Rsu Uilcom Uil di Cinisello – Il lavoro noi prima lo avevamo, la solidarietà era al 2,74% fino all’anno scorso, e adesso è balzata fino al 20%: chiara premonizione della chiusura».
Call&Call respinge la tesi che si stia licenziando per fare spazio a nuovi assunti grazie agli incentivi: «Siamo un gruppo con oltre 2500 persone – spiega Costamagna – e abbiamo sempre sostenuto, anche con i sindacati, le campagne contro le delocalizzazioni. In audizione alla Camera il 31 marzo ho spiegato che il Jobs Act può essere sì una buona opportunità, ma solo se assicura nuove assunzioni, e non per sostituire i dipendenti. Sarei folle a contraddirmi: quest’anno abbiamo stabilizzato 11 persone a Spezia, 8 a Roma e 6 a Locri; 26 a Casarano. Di nuovi abbiamo solo 2 a Roma e ulteriori 12 a Casarano, ma solo per una commessa locale, che non viene da Milano».
Ieri i sindacati hanno fatto un punto con tutti i territori e le segreterie nazionali di categoria di Cgil, Cisl, Uil e Ugl: «Ci interessava capire – spiega Luana Conte, Rsu Slc Cgil di Cinisello – se potevamo contare sull’aiuto dei colleghi delle altre sedi o se dovevamo lottare da soli. E ci hanno detto che sì, saranno con noi. Forse, se potremo ripartirci i sacrifici su tutto il territorio nazionale, si potranno salvare i nostri posti. Noi ci crediamo e ci stiamo lavorando».
A questo punto si dovrà capire quali siano le possibilità per arrivare a costi della sede meno onerosi: le perdite a Cinisello sono state di 500 mila euro nel 2013 e di 400 mila nel 2014, spiega Costamagna, e il trend è simile sul 2015, su un fatturato milanese di 5 milioni e nazionale di 57. «Una cosa non siamo disponibili a cedere – concordano le Rsu – i diritti primari legati al contratto e al salario. Su tanti altri elementi si può lavorare per trovare una quadra».
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