Visioni

«Calibano l’affarista», l’Italia tra memorie e attualità

«Calibano l’affarista», l’Italia tra memorie e attualità

A teatro I personaggi di Shakespeare incontrano quelli di Pasolini nella nuova regia di Alfonso Santagata.Una confusione apparente di strettissima e rara coerenza che svela inattese affinità

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 23 settembre 2017
G.CAP.GAVORRANO (Grosseto)

Da qualche anno ormai Alfonso Santagata ha votato le proprie estati lavorative alle colline metallifere maremmane, attraversando con le sue visioni luoghi non neutrali, anzi ricchi di storia e di memoria. Le miniere di Gavorrano e Ravi infatti hanno visto la scintilla del boom economico nazionale, e ne hanno poi subito la ricaduta in termini di inquinamento ambientale, politiche industriali incontrollabili, malattie e morte che quelle «tecniche d’avanguardia» (e il rivoluzionario Moplen di Montedison, che sfociava velenoso nei fanghi di Scarlino) hanno lasciato come strascichi. Qualcosa che nell’immaginario rimanda istintivamente  alla tragedia antica e ai suoi maestri.

 

 

Non a caso Santagata può continuare negli anni la sua indagine, attraverso il teatro e i suoi fondamenti, dai classici greci a Shakespeare, ogni volta facendoci commuovere e indignare, spinto da quei numi a scavare in qualcosa che certo viene dal passato ma ineluttabilmente riguarda il presente. Quest’anno, col titolo balzacchiano Calibano l’affarista, uno dei motori drammaturgici diviene niente meno che Pasolini. È l’immagine della sua morte a dare il via allo spettacolo, all’ingresso del Parco minerario di Ravi, e il suo trapasso ci sbalza in una realtà fattiva, ma non molto migliore di quella umana: ambizioni, furbizie e prepotenze gestiscono anche l’altro mondo. Anzi a governate il tutto c’è la figura nerissima di Calibano, che solo la magia di Prospero tiene a bada nella Tempesta shakespeariana.

 

 

Non è un leader  politico, ma piuttosto un boss, un caporione disinvolto (e perfino simpatico nel suo orrore) che decide lavori, li affida e li toglie a piacimento, ritenendosi quasi un «cemetery designer».E chi popola quell’al di là non è meno curioso, perché pieno di figure a noi note, amate, infelici. Le fantasie si mescolano, come le loro origini, con affinità imprevedibili tra le creature di Pasolini e quelle del Bardo inglese. Tutte, a proprio modo, ci parlano di noi, e discutono, si innamorano, fanno a botte con naturalezza: Accattone e Jago, Mamma Roma e Otello, Ofelia e il becchino. Tutti plausibili e motivati, tutti così pieni di senso da invogliare a rileggerli con maggior profondità.

 

 

Nell’apparente «confusione» spostandosi tra un pozzo e una vasca di filtraggio quelle visioni si apparentano in una strettissima coerenza. Come non sempre a teatro accade. Lo ottengono assieme allo stesso Santagata, Chiara Di Stefano (meravigliosa Mamma Roma senza ombra della Magnani), Tommaso Taddei, Massimiliano Poli e tutti gli altri che a quelle fantasie e a quei pensieri hanno dato corpo.

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