Di grandi squadre nella storia del calcio ce ne sono state anche dopo e sicuramente ce ne saranno ancora anche di qui in avanti, ma nessuna è riuscita a suscitare le emozioni, le vibrazioni e anche gli svolazzi poetici dell’Olanda dei primi anni settanta.

Una compagine unica, divenuta famosa per una definizione, stringente quanto fatale, quella di “calcio totale”. Già ma cos’è stato davvero il calcio totale e come spiegarlo oggi a chi non ha visto se non qualche brandello di quelle gare, qualche gol, alcuni dei funambolici cambi di passo di Cruiff e poco altro? Ci prova con molta ambizione e anche con buon successo un saggio di David Winner da poco uscito in Italia: Brilliant Orange (Minimumfax, pp. 362, € 18).

Dire che non si tratta del solito libro sul calcio è davvero riduttivo e così anche dire che non si occupa solo di questo sport ma cerca di metterlo in relazione con tutta quanta la storia dell’Olanda.

Piuttosto il calcio è la tranche-de-vie attraverso cui Winner racconta una civiltà, quella olandese, secolarmente alle prese sempre con un unico e solo problema, seppur gigantesco, quello dello spazio. Una lotta secolare, eterna, questa tra gli olandesi e l’acqua, al fine di strappare alle paludi, alle lagune, insomma al nulla qualche brandello di terra in più.

Una cosa da ridere per chi ha disposizione praterie, steppe e quant’altro, una vera e propria manna per una nazione eternamente alle prese con il problema dello spazio.

E così, quando il secondo dopoguerra si dirada sempre più negli anni sessanta del benessere europeo derivante dalla cortina di ferro e dal piano Marshall, emerge una generazione di calciatori che a questo problema dà una soluzione nuova: il totaalvoetbal. Ovvero il calcio totale. Un modo di interpretare il calcio e in particolare il campo da gioco come se non fosse qualcosa di oggettivo, di dato una volta per tutte, bensì come qualcosa di relativo, qualcosa che attraverso l’immaginazione possa espandersi e contrarsi a seconda delle esigenze.

Da qui, da questa idea nasce un modo di giocare che ha entusiasmato tutti quelli che in quel periodo se lo trovano davanti, anche gli avversari. I protagonisti diventano emblemi degli anni settanta al pari di rockstar, filosofi, scrittori, attori. Cruyff, Neeskeens, Krol, Rensenbrink, Suurbier. La parabola inizia sostanzialmente nel ’70, quando il Feyenoord vince la coppa Campioni sconfiggendo il Celtic di Glasgow, ma è con l’Ajax che vince le tre Coppe campioni successive che il modo di giocare all’olandese diventa un esempio inimitabile da imitare.

Corsa, agilità, doti tecniche fuori dal comune fanno del collettivo di questa squadra un qualcosa di mai visto prima, a cui il solista/direttore d’orchestra Cruyff dona quel tocco di genio. Per spiegare questo modo di giocare Winner tira in ballo altri riferimenti, ad esempio la pittura astratta di Mondrian, fatta solo di linee e colori, nessun riferimento alla realtà, nessuna pretesa di riprodurre le cose del mondo, ma di seguirne l’intimo moto interno, questo sì.

E’ come se Winner si posizionasse, dopo averci raccontato da vicinissimo come si erano formati e da dove venivano quegli undici marziani venuti a sconvolgere per sempre il modo di giocare a calcio, ad una distanza siderale interplanetaria, in cui non restano che i movimenti dei corpi, ridotti a punti, nello spazio.

Dopo il ’73 la compagine dei lancieri di Amsterdam, così erano ribattezzati i calciatori dell’Ajax, inizia a disgregarsi. Il condottiero, Cruyff, emigra in Catalogna dove diventerà un punto di riferimento non solo per gli anni trascorsi sul campo, ma anche e soprattutto come allenatore e guida teorica del Barcellona. Quel modo di giocare così tipico e uguale a sé stesso a dispetto degli anni e degli interpreti ha filiazioni e debiti evidenti con il modo di giocare e di intendere l’occupazione dello spazio da parte di quell’olandese ribelle e anarchico.

Ancora una volta torna fondamentale il discorso sullo spazio, d’altronde è attraverso un utilizzo nuovo e diverso dello spazio scenico, del set, che le nuove generazioni scaturite dal ’68 cercano di portare al potere le loro idee. Facendone un qualcosa di eccentrico, di “fuori norma” nient’affatto riducibile a stereotipo ma semplicemente da ammirare e, semmai, con cui confrontarsi.