«Con Amédé Ardoin abbiamo suonato tanto insieme, dappertutto. Abbiamo suonato per i bianchi e per i neri, non ha fatto alcuna differenza. Tutti hanno pagato lo stesso. Oh sì! Il piccolo Amédé Ardoin, era un buon cantante e un buon musicista di accordion sia per i neri che per i bianchi». Così Dennis McGee, iconografico violinista bianco classe 1893 e scomparso nel 1989, raccontava in una vecchia intervista, parte delle sue esperienze assieme all’amico creolo Ardoin, di soli cinque anni più giovane essendo nato nel 1898. Ebbero anche l’opportunità di registrare in tre distinte sedute d’incisione comprese tra il 1929 e il 1934. Poi i destini si separarono e le cose andarono in modo diverso. McGee rimase vivo, vegeto e in forze quasi fino alla fine dei suoi giorni. Ardoin invece scomparve molto presto, nel 1942, a seguito di una vicenda infima, che ancora oggi trasuda razzismo e violenza. Così diversi, così uguali, così fondamentali alla costruzione della cultura musicale dei cajun.
Per inciso, anche una sfilza di nomi altrettanto considerevoli hanno contribuito alla questione nel corso dei decenni, ma senza dubbio, sia McGee che Ardoin hanno avuto dalla loro delle circostanze che gli hanno permesso di valicare il crinale del millennio ed essere ancora oggi dei riferimenti. La vita artistica di McGee ricalca per certi versi quella di alcuni illustri bluesmen: dopo un periodo giovanile di grande rilievo, cadde progressivamente nel dimenticatoio fino agli anni Settanta, quando il mondo cajun ebbe una fase simile al blues revival che riguardò anche il musicista di Eunice, con esiti che durarono fino a poco prima della sua scomparsa. Nel 1982 la University of Louisiana di Lafayette lo nominò «Honorary Dean of Cajun Music», durante una memorabile presentazione con annesso concerto dove il novello decano si esibì assieme al suo sparring partner per eccellenza Sady Courville e al suo protetto Michael Doucet, ambedue al violino, presso lo stadio della locale squadra di football, i Rangin’ Cajuns, prima di una loro partita. Quel filmato, come altri ripresi nell’abitazione di McGee l’anno dopo, lo si trova incluso nella serie televisiva American Patchwork di Alan Lomax. Curioso sapere che la musica era di casa in famiglia, in quanto suo figlio Gerry è stato uno dei membri cardine delle icone rock The Ventures.

MENO FORTUNATO
Ardoin invece fu assai meno fortunato: durante un concerto un gesto apparentemente innocente fu per lui l’inizio della fine. Nel corso di una esibizione per una ricca famiglia bianca, si racconta che la figlia della coppia gli porgesse un fazzoletto per detergere il sudore. Questo atto scatenò l’ira di un gruppo di razzisti presenti, i quali attaccarono e colpirono Ardoin. Durante la sua fuga oltre ad ulteriori percosse, come narrato dal musicista Canray Fontenot, il creolo venne investito dalla Ford Model A di uno di questi, finendo in un fossato. Ardoin non si riprese più, subendo danni permanenti che lo ridussero a uno stato larvale, a cui si aggiunse un ricovero nel manicomio di Pineville, in Louisiana, preludio al decesso del 3 novembre 1942. Una morte di cui si è avuta la complessità delle informazioni soltanto una decina di anni fa e che lo avvicina nella sua drammaticità, a personaggi come Robert Johnson e Charley Patton, sia per il talento che per la prematura morte.
Il mondo dei cajun è l’emblema della storia di un’espulsione forzata, avvenuta durante il diciottesimo secolo nel continente americano a seguito dei conflitti tra le grandi potenze europee dell’epoca, l’Inghilterra e la Francia. Tra il 1754 e il 1763 si svolse nel nord America quella che nella storiografia anglosassone viene chiamata la guerra franco-indiana, la quale rappresentò l’avvio del conflitto ben più noto come guerra dei sette anni. Con la vittoria, i britannici ottennero, tra le altre cose, il controllo della colonia francese dell’Acadia, un’ampia area geografica che include il Quebec orientale, le province marittime dell’odierno Canada (Nuovo Brunswick, Nuova Scozia, isola del Principe Eduardo) e il Maine Settentrionale. L’esito fu quello che viene ancora oggi chiamato «The Great Expulsion»: gli inglesi operarono una vera deportazione di massa che riguardò migliaia di acadiani e molti di questi vennero spediti nell’area sud ovest della Louisiana. I cajun di oggi sono quindi i discendenti degli esiliati di allora, di migranti giunti nei secoli successivi e di altri già presenti in quei luoghi, polacchi e tedeschi in particolare, oltre a popolazioni autoctone che includevano sia i creoli, che diverse tribù di nativi americani. Interessante segnalare tra queste gli Houma e i Tunica-Biloxi, da cui derivano i nomi delle due omonime città dello stato.

FASCINO INDELEBILE
Il fascino di una storia collettiva così imponente e deflagrante, lasciò un segno indelebile nel 1975. The Band nel loro album Northern Light-Southern Cross, inclusero la canzone Acadian Driftwood, una ballata melanconica di una bellezza struggente. Il brano scritto da Robbie Robertson, vede l’intreccio delle voci di Richard Manuel, Levon Helm e Rick Danko raggiungere uno dei vertici della loro intera produzione, su cui svettano il fiddle suonato da Byron Berlin e l’accordion da Garth Hudson. Un’incisione in cui, proprio a partire da questi due fondamentali strumenti tradizionali, si ritrova davvero tutto. Incluso il coinvolgimento per la questione cajun che proprio in quegli anni viveva un’attenzione mediatica notevole, centrata sull’affermazione della dignità ad esistere di una popolazione certamente statunitense, ma con delle peculiarità rilevanti. La Louisiana, che non casualmente ancora oggi non ha una lingua ufficiale, nei vari passaggi di trasformazione della propria costituzione, nel 1921 ufficializzò oltre a tutte le misure razziali figlie dell’era Jim Crow, anche l’obbligo di insegnamento nella scuola pubblica in lingua inglese. Per avere un riconoscimento dell’eredità culturale francese da parte del legislatore statale bisognerà attendere il 1968, quando venne istituito il Consiglio per lo sviluppo del francese in Louisiana (Codofil) per «preservare, promuovere e sviluppare la cultura, il patrimonio e la lingua francese e creola», e una ulteriore ed efficace chiarificazione nel 1974, in cui si riconosceva «il diritto delle persone a preservare, adottare e promuovere le rispettive origini storiche linguistiche e culturali». Ben prima che il diritto facesse formalmente il suo corso, le donne e gli uomini residenti in Acadiana, ovverosia nel triangolo geografico che ha come vertice la città di Alexandria e come base la costa dello stato, avevano maturato un poderoso senso di appartenenza alla comunità, oltre che con abitudini, costumi ed usi, proprio con un logos di base: la parola Cajun deriva infatti da A-ca-jan, pronuncia francese dei terreni nord americani di Acadiana. La chiave di volta del tutto va ricercata proprio nell’idioma comune che divenne l’elemento aggregante e come viene sovente spiegato proprio dai cajun stessi, il tutto può riassumersi a tavola, dove l’intera vicenda sembra sublimare alla perfezione in uno dei cibi tradizionali della loro cucina, il gumbo: una ciotola ricca di ingredienti derivanti da ogni dove, esattamente come le loro radici antropologiche. E al contempo, capace di essere completamente diversa da qualsiasi altra area geografica degli States.

PRESA DI COSCIENZA
Quello che è accaduto dagli anni Venti fino al termine ai primi Settanta narra di una lenta ma progressiva presa di coscienza da parte delle comunità coinvolte, ma che più volte è stata usata in modo ingannevole da gruppi di potere per i loro interessi. Lo spettro di una deriva che passando dall’orgoglio etnico potesse giungere a comportamenti xenofobi e razzisti, a lungo ha agitato tristemente le cronache locali. Fortunatamente grazie alla progressione delle condizioni economiche e lavorative e ad eventi socio culturali di portata nazionale, una su tutti la stagione del Civil Right Movement, oltre all’ineluttabilità del trascorrere del tempo, le condizioni di rischio si sono via via depotenziate. Nonostante la celeberrima frase di Roosevelt del 1919 «abbiamo spazio per una sola lingua qui, e questa è l’inglese», il suprematismo bianco, e il fatto che si trattasse comunque del Deep South dello stato, pian piano le cose mutarono. Nell’immediato dopoguerra molta manodopera locale iniziò a trovare impiego nell’industria estrattiva di gas naturali e petrolio, le punizioni corporali a scuola per chi parlava francese progressivamente si riducevano e nel frattempo, ci si poteva permettere di mangiare più rilassati in luoghi pubblici pietanze denominate étouffée, boudin e courtbouillon. Nel mentre istituzioni pubbliche locali, ospedali, luoghi di studio e di incontro e anche la segnaletica stradale implementavano nomi e lemmi cajun, la General Motors iniziava a smerciare auto prodotte con marchi chiamati Acadiana e Beaumont e la canzone Amos Moses, storia di un cacciatore di alligatori con un braccio solo, del countryman Jerry Reed divenne una hit di successo nel 1970. L’incisione nel corso del tempo fu interpretata ben due volte da Les Claypool dei Primus e venne inclusa nel 2004 in una versione del videogame Grand Theft Auto. Ancora più in alto, ad esser precisi a circa 107.712 chilometri di altezza, giunse il brano Louisiana Man di Doug e Rusty Kershaw, che nel novembre del 1969 divenne la prima canzone ad essere trasmessa dalla Luna alla Terra a bordo dell’Apollo 12, grazie al comandante della missione Pete Conrad. In realtà, sembra che qualche minuto prima abbia suonato nella navicella uno stralcio di San Antonio Rose di Bob Willis, ma a tutti gli effetti Louisiana Man fu letteralmente presentata dal novello dj interstellare Conrad, come risulta dagli archivi della Nasa. Le cose cambiarono e la tensione sociale scese: le sale da ballo il sabato sera si animarono sempre più e la musica, divenne ulteriormente collante di una intera comunità.

INTERVISTA
«Sai, la musica e la cultura cajun sono una tradizione di lunga data in tutto il sud della Louisiana. Con un proprio linguaggio: è un dialetto che oggi viene parlato solo nelle relative comunità. Questa caratteristica rende unico e identificativo ogni aspetto culturale, musica inclusa, che arriva dalla Louisiana». Lei è Amanda Shaw, violinista e cantante della scena cajun contemporanea, di cui è indiscutibilmente il faro più brillante, grazie a una lunga carriera iniziata ben prima della maggiore età e che nel corso degli anni l’ha portata a incidere sette dischi ed essere in tour in Nord America, Sud America ed Europa. Dalle sue parti è un’autentica celebrità, oltre che per l’importante attività live che ha il suo apice nella presenza fissa al New Orleans Jazz & Heritage Festival, anche per le attività benefiche della sua fondazione. Oltre il glamour delle copertine, a garantirle il nickname di «Cajun Fiddle Queen», è la sua profonda conoscenza del mondo da cui arriva. «Crescendo qui in Louisiana sono sempre stata circondata da musica e cibo, due elementi legati profondamente uno all’altro. Ci si incontra per stare assieme e dove si suona, si mangia. Era così quando ero piccola e lo è ancora oggi: quasi ogni fine settimana c’è un festival, un concerto o qualche altra celebrazione. Non è un caso che le cose per me siano iniziate in questo modo. Ricordo che ero una bambina, un giorno mia madre mi portò a vedere uno spettacolo in un negozio locale dove c’era un musicista che suonava cajun cantando in francese. Me ne innamorai! La danza e il suono mi piacquero moltissimo, erano estremamente divertenti. Ai tempi avevo già iniziato a studiare classica in un’università della zona, ma non c’era confronto, la musica cajun era molto più allegra. Fu così che i miei genitori iniziarono a portarmi a vedere vari gruppi nei ristoranti, durante i weekend. Una su tutte divenne la mia band preferita: la raggiungevamo ogni domenica e io prendevo lezioni dal violinista, poco prima che iniziasse a suonare con gli altri. Dopodiché, ci sedevamo accanto al palco e di tanto in tanto, quando lui eseguiva alcune note, io le ripetevo immediatamente, andando avanti in questo modo fine alla fine del concerto, imparando ogni volta una nuova melodia di violino! Ancora suono alcune di quelle canzoni nei miei spettacoli, venti anni dopo! Quello di cui all’epoca non mi rendevo conto, era che Mitch Reed, il violinista, aveva imparato molti di quei temi da Dennis McGee e altre leggende come lui. Solo adesso, da adulta, comprendo quanto sia stato fantastico quello che mi è accaduto: ciò che ho appreso fa parte dei miei spettacoli, il che mi rende parte della tradizione. Quindi, ora ho un compito: facendone parte, devo condividere la musica cajun con il mondo». Le parole di Amanda Shaw sembrano echeggiare quelle di uno dei pilastri del genere, il suonatore di accordion Allie Young, che così raccontava la sua infanzia: «Ho iniziato a suonare a circa otto anni. Ricordo che avevo un vecchio zio che suonava il violino e io andavo ad ascoltarlo. Quando ero lì, gli chiedevo di suonare per me e da lui ho imparato alcune vecchie canzoni».
Nonostante vi siano quasi otto decadi di differenza tra la data di nascita di Young, il 1912, è quella di Shaw, il 1990, la trasmissione di una cultura da chi la usa e maneggia con consapevolezza a chi forse avrà lo stesso ruolo, non è mutata. Una regola vecchia quanto il mondo, con un inestimabile valore folklorico e una capacità di affabulare intatta. «Avevo otto anni quando durante una jam session, ho capito che, anche se non conoscevo la canzone, ascoltando potevo riuscire a sentire le note giuste e saltarci dentro nel momento buono. Ce lo hanno insegnato i nostri eroi, Dennis McGee su tutti. Era straordinario, ha scritto la maggior parte degli standard esistenti e che ancora eseguiamo. Aveva uno stile divertente, leggero e robusto. Assieme a Sady Courville ha creato il suono moderno del fiddle, che riconosci quando due violini suonano linee simili nella canzone, dove uno esegue l’armonia alta e l’altro quella bassa. Se a questo avvicini le storie degli esuli acadiani, dapprima costretti in casa per il loro linguaggio e poi deportati in condizioni miserevoli verso chissà dove portando con sé soltanto le canzoni nel cuore e le ricette nell’anima, puoi capire perché nella nostra cultura sia importante conoscere a fondo le tradizioni. Parte di queste, a seguito delle avversità degli ultimi decenni, stanno morendo. Ma possiamo salvarle. Attraverso la musica e la narrazione che sono due delle più antiche forme d’arte conosciute dall’uomo. Significa farlo sul palco, raccontando storie e suonando canzoni anche se buona parte di quest’ultime non sono trascritte su di uno spartito. Sono brani vecchi e nuovi che narranno la durezza dell’esistenza e le difficoltà del vivere di ieri e di oggi. Trasmetterle agli altri non è solo un modo di vivere, ma anche un nostro dovere per poter salvare ciò che è quasi perso. Per questo il mio prossimo progetto di musica totalmente tradizionale (in uscita il 24 luglio, ndr) si chiama La joie d’ Louisiane: per celebrare la gioia della vita cajun, nella speranza di dare nuova vita alle canzoni che hanno fatto parte della nostra storia qui in Louisiana». Che emergono da quel tessuto connettivo chiamato palude, mentre salici e cipressi si susseguono nel colore grigio-verdastro del bayou, sovrastato a primavera dall’odore pungente delle azalee, a cui Louis Armstrong e Duke Ellington dedicarono per l’appunto Azalea. E che si mescolano nelle feste del Courir de Mardi Gras, mentre i bambini se ne vanno a dormire quando arriva la notte e le coppie ballano durante il Fais Do Do.

 

FUORI I DISCHI
Amede Ardoin Mama, I’ll Be Long Gone. Complete Recording 1929- 1934
Dennis McGee The Complete Early Recordings
Balfa Brothers Play Traditional Cajun Music
Canray Fontenot Lousiana Hot Sauce, Creole Style
Michael Doucet Beau Solo
Wade Frugé Old Style Cajun Music
Dewey Balfa, Marc Savoy & D.L. Menard En bas du chêne vert
Wallace «Cheese» Read Cajun House Party
Lost Bayou Ramblers Pilette Breakdown
Amanda Shaw Good Southern Girl