Politica

Caffa, il senso della lotta

Franca Caffa a colloquio con il carabiniere sabato scorso foto Local teamFranca Caffa a colloquio con il carabiniere sabato scorso – foto Local team

Intervista «Mattarella non mi rappresenta», le ha detto il carabiniere a Milano. Franca, una vita da militante fin dal 1949: «La cosa positiva è che così almeno parliamo dei diritti dei palestinesi»

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 31 gennaio 2024

«In questi giorni mi state cercando tutti voi giornalisti, poi quando finirà questa buriana non mi chiamerete più. E invece io ho tante altre battaglie da portare avanti». Un esordio in pieno stile Franca Caffa, almeno per chi la conosce da anni e sa la tenacia della persona. È stanca del can-can mediatico che l’ha coinvolta, ma allo stesso tempo vuole dire la sua. A partire proprio dall’episodio di sabato scorso alla manifestazione pro Palestina a Milano, e del suo dialogo col carabiniere immortalato poi dai video che lo hanno reso virale.

Partiamo da lì. Cosa è successo?
Sono andata proprio perché è stato chiesto di rinviarla, come se la coincidenza della manifestazione per i palestinesi e per la pace non potesse coincidere con il giorno della memoria. Se vogliamo ricordare è proprio il caso di prendere quanto più possiamo posizione per i diritti dei palestinesi contro le sciagurate e maledette politiche di Netanyahu. Questo è un modo per celebrare la giornata della memoria. Allora io ho deciso di andare, a passetti col mio bastone, e ho raggiunto la linea dello schieramento dei carabinieri in tenuta antisommossa con gli elmi e con i manganelli pronti. Mi sono detta, io voglio esprimere la richiesta di pace di tanti. Ho fatto una carezza sul volto di un carabiniere, che ha sorriso vedendo i miei capelli bianchi, e poi ho iniziato a parlare con loro, per aprire un dialogo, ragionare con loro. A quel punto ho richiamato le parole del presidente della repubblica quando ha detto che dopo aver tanto sofferto persecuzioni gli israeliani non possono rifiutare di riconoscere ai palestinesi il loro diritto ad avere uno stato. A quel punto uno di loro mi ha detto: «Io non l’ho votato, io non lo riconosco».

Come hai reagito?
Sono rimasta stupita, poi ho saputo che è stato anche trasferito per le sue parole perché costituirebbero offesa nei confronti di Mattarella. Penso che quel carabiniere fosse convinto che fosse un dialogo tra me e lui. Spero che ciò che ha voluto esprimere fosse una critica al presidente della repubblica senza mancare di rispetto. Spero che non si tratti invece di una concezione reazionaria e fascista che voleva esprimere. Se è la prima ipotesi quella corretta, mi auguro che il presidente Mattarella voglia fare un gesto di benevolenza nei suoi confronti e che venga reintegrato nel suo incarico. Alla fine da questa vicenda una cosa positiva c’è: in tanti stanno parlando delle nostre ragioni, quelle del rispetto dei diritti del popolo palestinese.

Da decenni lotti per i diritti. Che siano dei palestinesi così come dei lavoratori sfruttati. Com’è nata la tua passione?
Avevo 20 anni a Genova, era il 1949, mi sono iscritta alla Cgil quando ho iniziato a lavorare, dopo il liceo. Avrei voluto continuare a studiare, volevo fare medicina, ma la mia famiglia non aveva soldi. Nella primavera del 1951 mi sono iscritta al Partito comunista. Allora il Pci aveva due milioni di iscritti, dagli stabilimenti del Ponente uscivano gli operai come fiumi. Era una classe operaia cosciente e organizzata. Poi c’erano i contadini dell’entroterra che protestavano e il Pci li aveva affiancati perché si organizzassero in cooperativa. Quando vinsero le loro battaglie, dopo una manifestazione, vennero a Genova con delle vacche e si fermarono davanti alla Camera del lavoro. E sai chi parlò da un palco, che poi era semplicemente una scaletta di pochi gradini? Io. E sai perché? Perché ero l’unica che sapeva parlare in genovese! Comunque in quel tempo il Partito comunista istruiva i sui iscritti, li faceva crescere culturalmente, li rendeva coscienti dei loro diritti. Aveva cura che il rapporto tra noi comunisti e questa base popolare fosse costante. Ci organizzavamo in gruppi per andare ad ascoltare i lavoratori e per farci ascoltare.

Cosa che adesso la sinistra non fa più?
Questo è il problema della sinistra. Che non parla più con chi dovrebbe rappresentare.

Quando sei arrivata a Milano?
A Milano ci sono arrivata dopo un soggiorno in Francia dove ero andata perché licenziata per rappresaglia politica. Io e migliaia di compagni siamo stati licenziati ai tempi della legge truffa. Ero stata licenziata e mi chiedevo: adesso chi mi assume? Per un periodo non ho saputo come avrei passato la mia vecchiaia. Io sono stata licenziata per assenza arbitraria. Alle 10 del mattino mi è stata consegnata una lettera di ammonizione, a mezzogiorno la lettera di licenziamento. Le mie assenze arbitrarie erano partecipazione a scioperi generali indetti dalla Camera del lavoro di Genova. Dopo la parentesi francese, a Milano sono arrivata ai tempi della guerra in Vietnam. Ho ripreso la lotta, spesso ci fermavano e ci portavano in questura, dove ci interrogavano. Non firmavo mai il verbale ma poi ci lasciavano liberi. Tranne una volta quando invece hanno deciso di trasformare il fermo di polizia in arresto e così ho fatto l’esperienza di straordinario interesse di 13 giorni in carcere a San Vittore. Grazie a un’amnistia sono uscita.

Tu hai legato la tua vita a Milano alla lotta per il diritto alla casa. Ce lo spieghi?
Ancora una volta è stato a seguito di un’esperienza personale. Sono stata sfrattata e mi è stato dato in assegnazione un alloggio, totalmente inadeguato alla mia famiglia, nelle case popolari del quartiere Calvairate. Un appartamento in condizioni disperanti di degrado e abbandono. E allora ho dato la risposta a queste politiche ingiuste e indegne: ho costituito il comitato inquilini delle 3 mila case Molise-Calvairate-Ponti. Sottolineo che il nome era al maschile, ma eravamo più che altro donne. È importante che in casi come questo la direzione fosse in mano alle donne, con inquiline che conoscevano le condizioni in cui erano costrette a vivere insieme ai loro figli.

Oggi a Milano il tema della casa è centrale. Cosa ne pensi?
Penso che noi della sinistra siamo in una fase di sconfitta generale, che viene da lontano. Viene da un processo che da oltre 50 anni ci impoverisce di fronte a diritti che avevamo conquistato. Altro che conquistarne altri! Dobbiamo tornare alle radici. Non possiamo dimenticarci che i diritti di tutti e tutte sono a rischio. Altrimenti non cambieremo mai la situazione, che ha trasformato la mentalità delle masse popolari in quella dei sudditi. E non dobbiamo piegarci a una pseudo sinistra che invece porta avanti interessi altri.

Un’ultima domanda. Provocatoria. Chi te lo fa fare alla tua età (a settembre compirà 95 anni) di continuare a lottare?
Ma questa è una domanda priva di senso! Sto bene anche se con energie diminuite. La tendenza mia sarebbe stare in casa, uscire richiede sforzo e impegno. Per certi aspetti però posso dire che sto meglio, perché la tendenza a riflettere e a pensare, a cercare chiarezza nei pensieri e nel cuore, mano a mano che vai avanti si affina. Sono mortificata per il fatto che lasciamo ai giovani una situazione tanto difficile. Il fatto che non abbiamo saputo resistere all’ondata che come proletari ci ha ricacciato indietro. E quindi trovo un senso al mio vivere nel cercare di conoscere, di capire, e di lottare. Dovremo svegliarci!

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