Visioni

Caetano Veloso, malinconia di un tempo che sembra infinito

Caetano Veloso, malinconia di un tempo che sembra infinitoCaetano Veloso sul palco dell'Auditorium Parco della Musica di Roma – foto di Musacchio & Ianniello/Parco della Musica

Eventi L’unica tappa italiana dell’artista brasiliano, sul palco una band che lo supporta nella sua ultima incarnazione

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 settembre 2023

Ricomincia da dove tutto è partito, Caetano Veloso nella calda notte romana che accoglie l’unica data italiana del suo tour europeo, e apre con quell’Avarandado cantato anche dal maestro del Brasile magnifico carico di promesse degli anni bossanova, João Gilberto. E a cui soprattutto aveva prestato la voce Gal Costa nell’album che li aveva visti debuttare insieme nel 1967, Domingo, una domenica della vita, dolce, giovane, morbida, piena di echi della bossa che si trasformeranno presto in tanto altro, senza mai perdere il filo delle malie ma piegandole più e più volte, duttili corde vocali, elettriche corde che attaccheranno la spina del tropicalismo.

E A CASCATA, tutto quello che è seguito, senza risparmiare nulla in curiosità, esplorazioni, melodie e rotture. (L’omaggio a Gal Costa, morta improvvisamente lo scorso novembre, ci sarà esplicito più avanti, con Baby mista alla Diana di Paul Anka che da anni si è trasformata in baiana, nelle rime di Veloso). Sul palco della Cavea dell’Auditorium romano Caetano porta l’ennesima nuova banda, ancora una volta il complemento giusto per la sua ultima incarnazione, ed il robusto ritorno delle percussioni – quelle del samba di Thiaguinho da Serrinha e le baiane di Kainã do Jeje, che il nostro presenta come il più baiano che abbia mai conosciuto in 81 anni di baianità. A tratti, probabilmente per un’allucinazione sonora, la voce ancora perfetta di Veloso sembra inseguire il modo di João Gilberto: anticipare un soffio, ritardare di un respiro quasi impercettibile, giocare con il tempo. Il tempo, che gli ha fatto dire, nel giugno scorso, che questa sarà probabilmente la sua ultima tournée internazionale, che è stanco, stanco anche di Rio, che pure gli ha prestato questi giovani – e qualcuno meno giovane – musicisti che lo accompagnano. Vuole tornare a Salvador, e chi vuole ascoltarlo che vada a Bahia. Perché il tempo, che somma infinite, e poi finite battute, Caetano lo ha attraversato in lungo e largo, e ha saputo intrecciarlo al ritmo, dilatarlo ed estenderlo, sincoparlo e raddoppiarlo, elastico meraviglioso cantato in Oraçao ao tempo – l’orazione che nella scaletta di ieri mancava, ma avrebbe potuto starci, un senhor tao bonito. E lui che fragile sul palco mostra al pubblico il suo tempo di uomo, di musica, di parola e di lingua, affascinato dall’italiano che si ostina a parlare con sfrontata timidezza, quello dei film delle matinée del Cinema Olimpia che gli hanno portato Fellini e Antonioni. In ogni tappa di questo tour c’è una canzone che omaggia il luogo – se per i francofoni è stata Dans mon île di Henri Salvador, per noi è la sognante Michelangelo Antonioni. La scaletta è un’antologia imperfetta della sua carriera – che completa non sarebbe stato possibile -, e quello che gira nella sua testa – Meu coco, titolo dell’ultimo album e anche di questo tour, è quella testa canuta di velho baiano, il Caetano qualsiasi che è stato capace come nessun altro di aprire le porte del Brasile alla nostra parte di mondo, e non solo.

In scaletta oltre a brani dalle diverse fasi della sua carriera, l’omaggio a Gal Costa

CI HA FATTO entrare dal piglio no wave di Arto Lindsay alla fine degli anni 80, dalle colonne sonore di Almodovar negli anni 2000, dalle ruggenti estati romane di Nicolini per chi ha avuto la fortuna di inciamparci nei primi 80. Il risultato è che il pubblico queste canzoni spesso le canta a memoria, e no, non è solo la comunità brasiliana, che certo è presente ma in fondo molto più esigua di quanto sia stata in un passato più o meno recente. Nel coco di Caetano frullano brani nuovi, alcuni irresistibili, fra queste certo il suo atto personale di resistenza a Bolsonaro e al bolsonarismo di Não vou deixar, ma anche Sem samba não dà o A bossanova è foda, ma è quando arrivano i classici che il pubblico esplode, è su Sampa, O leãozinho, Desde que o samba è samba che ormai è classica anch’essa, e ci arriva da un’altra celebrazione, i 25 anni dell’album collettivo Tropicalia, e i 50 di Caetano e Gil che la incidono a chiusura del Tropicalia 2 che pure avevano portato in tour anche dalle nostre parti, correva l’anno 1993. E quel che aleggia su questa serata è una dolcezza di inevitabile malinconia, un’aria di commiato con una stagione lunga che è anche del pubblico, quello che canta, quello che si alza a metà concerto per andare sottopalco, quello che fa fatica a dire, oltre questo incanto.

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