Ottant’anni sembrano tanti per Caetano Veloso. Brasiliano di Bahia, poeta-musicista sempre nuovo, eterno enfant terrible, sorgivo, sperimentatore, sempre alla ricerca di «outras palavras», nasce a Santo Amaro da Purificação il 7 agosto del 1942. Ma ottant’anni sono anche pochi, pochissimi, se guardiamo la monumentale complessità della sua opera. Oggi possiamo sgranarla come una di quelle lunghe collane consacrate in bagni di foglie che portano gli iniziati al candomblé, la religione africana di Bahia. Una di quelle che lui stesso «ateo che ha visto tanti miracoli» portava al collo con i colori di Oxosse, spirito delle foreste. Ogni perla una canzone, declinata in quarantanove dischi, una scintilla, un’illuminazione, una lama, una storia nella quale si intrecciano le sue vicende personali a quelle di un paese attraversato da dittature e rivoluzioni culturali, l’esilio e il ritorno, l’amore, la gelosia, lo spaesamento, la violenza e il sublime.

TROPICALISMO
Caetano «coração vagabundo» degli esordi, folgorato dal mantra intimo di João Gilberto. Caetano sperimentatore controvento del tropicalismo, insieme a Gilberto Gil, Maria Bethania, Gal Costa, «inventalingue» come in Circuladô de Fulô dal poema concretista de Haroldo de Campos, dell’antropofagia culturale che tutto deglutisce e trasforma. Caetano imprigionato, che vede in cella l’immagine del nostro pianeta scattata dall’equipaggio dell’Apollo 8 e, viaggiatore di spazi siderali, compone l’inno alla Terra che diventa rito collettivo a ogni concerto, anche nella manifestazione del marzo scorso a Brasilia contro la politica anti-ecologica del governo brasiliano. Caetano pluripremiato, una ventina di riconoscimenti internazionali, come il Grammy Award per il miglior album di musica mondiale, disco che per confondere le acque chiamò Libro, fino a quello del 2021 per Talvez scritta con il figlio Tom. Caetano declinato in verbo caetanar, saper godere di ciò che è buono, in Sina di Djavan. Che si innamora di Sonia Braga e la trasforma in Tigreza dagli iris color miele; del surfista José Artur Machado detto Petit, e lo fa diventare il «corpo aperto nello spazio» del Menino do Rio; della moglie Paulinha, definitivamente regina, «carioca di luce propria» in Branquinha; del suo primo amore Dedé e dei tanti amici, «gente fatta per brillare, non per morir di fame».
Caetano «fuori dal nuovo ordine mondiale» cantato in tutte le lingue, visionario per O indio, resplandescente divinità primordiale all’indomani dello sterminio dell’ultima nazione indigena. Caetano che diventa «sabbia del Sahara sulle automobili di Roma», che denuncia le trappole dei rapporti di coppia in Os quereres, che fatica a trovare l’incanto in ciò che non conosce, perché «Narciso trova brutto tutto ciò che non è specchio», per poi farti innamorare di Sampa, ode allo straniamento della metropoli paulista, miseranda miscela di fumi mefitici e favelas, dove pure trovano posto «officine di foreste e divinità della pioggia per una pan America di Afriche utopiche». Afriche sempre celebrate nel paese più africano fuori dall’Africa, come in Beleza pura, mistero, eleganza, conchiglie tra i capelli, o come in Navil negreiro, dove le parole del poeta antischiavista Antonio Castro Alvez ricordano quegli «antri d’inferno in pieno mare», navi che scaricavano proprio a Salvador de Bahia il loro più ingente carico umano per il lavoro schiavo della colonia, ma anche l’impressionante arsenale mitico che si rifondava a Bahia nel culto degli orixas. Spiriti delle forze della natura enumerati da Caetano in Milagre do povo, scritta per lo sceneggiato tratto dal romanzo dell’amico Jorge Amado Tenda dos milagres, come lui nato nel segno del leone, e insieme alla tenera O Leaonzinho, lanciata tra le stelle dal palco di Salvador a pochi minuti dalla morte dello scrittore. La perla del piccolo leone che si asciuga la criniera al sole è perfetta anche per il corpo dinoccolato e la micro-danza delle dita di Lutz Förster nel suo omaggio a Pina Bausch del film di Wim Wenders. Una delle tante incursioni cinematografiche di Caetano, la più celebre delle quali resta quella fatta di persona nel film di Almodovar Parla con lei: la sua faccia a tutto schermo, una voce da vedere che «parla con lei», fino a commuoverla con Cucurucucù Paloma. Questa canzone, insieme ad altri classici di cui fanno parte anche Luna rossa e Come prima, pezzi che possono sembrare chiusi entro certi steccati interpretativi, sono per Caetano una sfida inebriante, un invito a rivelarne invece il segreto. Anche al di là della comprensione delle parole.

Caetano Veloso (a sinistra) con Gilberto Gil (foto di Thiago Bernardes/LatinContent via Getty Images)

 

TIMBRO AUTENTICO
Erano gli anni Novanta quando una seduzione planetaria iniziò a esercitare il suo misterioso potere su un certo tipo di persone che nel mondo ascoltavano la voce di Caetano Veloso. Non era necessario conoscere il portoghese. Qualcosa che aveva a che fare con quel timbro, con il modo di porgerlo, con quel respiro, esigeva di essere ascoltato in quella voce. Come scrive la psicanalista Laura Pigozzi, «la voce è qualcosa che supera la dimensione dell’utilità, è un’impronta che rivela nulla di meno che la verità che riguarda ognuno». Una marcatura che non mente, un timbro di autenticità, che in Caetano Veloso incatena l’ascoltatore a un sodalizio intimo, a un segreto che pare svelato a lui solo.
A noi sembrava di godere di questo privilegio già nel 1984, quando si andava a Salvador proprio a cercare quella voce. «È a Boca do Rio, Praia dos Artistas». La signora con il turbante bianco sulla porta della casa di Ondina indicava il mare, le alte palme, il dolce far niente di quelle spiagge turchesi. Avvolto dai venti, sottile, in costume da bagno e riccioli neri, Veloso, il corpo di quella voce, era lì. Con la mia macchina fotografica al collo, mi presentavo, fotografa italiana, e nella luce abbagliante del mattino guardavo in alto i coqueiros, con le foglie che suonavano al vento. Me lo vidi lassù, Caetano Veloso, voce alta, in volo, e lui, inspiegabilmente, con un balzo nativo, era già in cima, aggrappato al suo cocco, palma svettante lui stesso. Quell’immagine epifanica divenne la prima pietra miliare di un’amicizia maturata sul Trio elettrico del Carnevale di Salvador, con la benedizione di Dona Canô nella casa di Santo Amaro, con il vino di Frascati, con un girasole in mano a Perugia, nella chiesa di Santa Chiara ad Assisi, all’ombra dei miei studi sulle sacerdotesse di Bahia. Meu coco è anche il titolo del suo ultimo album e del video minimalista che lo accompagna, dove la sottrazione è tale che la voce di Caetano, sottile e sinuoso anche nei suoi ottanta, diventa pensiero e micro-mimica: solo sporadicamente esce dalla sua bocca. Brani ricercati, cadenzati dalle percussioni di Marcio Victor, dai fiati di Thiago Amud, il disco vuole trasformare il lutto culturale del bolsonarismo in resistenza attiva, resa esplicita in Não vou deixar. «Non lascerò che succeda. Non ti lascerò rovinare la nostra vita, perché so cantare e conosco altri che lo sanno fare molto meglio di me». Per regalo di compleanno un concerto celebrazione con i tre figli e la sorella Maria Bethania, Caetano patriarca, a conferma delle ultime tournée familiari.
E l’ultima perla della lunga collana: Autoacalanto. Delicata ninna nanna che l’artista coglie sulla bocca dell’ultimo arrivato della famiglia Veloso, mentre se la canta da solo per addormentarsi. «Benjamin è una magnificenza, il canto di un cherubino. Cosa mi insegna questo? Un essere che da solo si ninna? – Si chiede Caetano, nonno stuporoso dopo ottant’anni di avventure -. Già è una nota di Tom, ha il colore del gelsomino e nella mia vita non ho mai visto niente di simile».