«Rimozione dalla magistratura». Per l’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta è necessaria la sanzione massima per Luca Palamara, la toga al centro dell’inchiesta di Perugia sulle nomine pilotate al Csm. Oggi la sezione disciplinare del Consiglio superiore potrebbe già emettere la sua sentenza, non prima di aver lasciato la parola all’imputato. Che considera se stesso il capro espiatorio di un sistema che non vuole mettersi in discussione in profondità.

Dalla tarda primavera del 2019 Palamara è il nome attorno al quale ruota lo scandalo più grave che abbia mai coinvolto l’organo di autogoverno della magistratura. Toga di riferimento della corrente moderata di Unicost, è stato anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati dalla quale è stato espulso venti giorni fa. La procura di Perugia ne ha chiesto il processo per corruzione, l’inchiesta si basa quasi esclusivamente sulle intercettazioni realizzati con l’ormai famoso trojan, il “captatore informatico” che ha trasformato il telefono di Palamara in un microfono ambientale sempre acceso. A partire dall’incontro del 9 maggio dell’anno scorso all’hotel Champagne di Roma in cui con due politici – l’ex sottosegretario Lotti e il deputato allora Pd oggi renziano Ferri – Palamara e altri consiglieri del Csm discutevano delle nomine ai vertici delle procure di Perugia e Roma. Lotti era già indagato a Roma per il caso Consip.

Ieri nell’udienza disciplinare davanti al Csm, il difensore di Palamara ha ammesso che la presenza di Lotti a quella discussione circa le decisioni dell’organo di auto governo della magistratura fu «gravemente inopportuna». Anche se ha detto che l’ex sottosegretario e braccio destro di Renzi «non fornì alcun contributo decisorio». Una correzione della linea difensiva tenuta sin qui da Palamara che, sospeso immediatamente dalle funzioni e dallo stipendio, davanti all’Anm aveva rivendicato che «sulle nomine il confronto con la politica c’è sempre stato». Ma tanto più l’ex leader di Unicost ha insistito con la sua chiamata di correo alle correnti della magistratura, tanto più la magistratura ha reagito duramente verso le sue responsabilità individuali. La vicenda ha comunque provocato un terremoto: sei consiglieri togati del Csm – tre di Magistratura indipendente e tre di Unicost – sono stati costretti alle dimissioni, Mattarella ha spiegato di non voler sciogliere il Csm solo per aspettare una riforma che consentirà l’elezione con criteri diversi, quella riforma utile o meno che sia è stata finalmente sottoscritta dalla maggioranza di governo (ma il percorso parlamentare deve ancora cominciare). Anche l’Anm si è spaccata, al punto che la sua stessa sopravvivenza come sindacato unitario è in dubbio: tra dieci giorni le elezioni del comitato direttivo – le prime telematiche – ne decideranno il destino. Certamente il clima elettorale ha pesato sulla durezza delle critiche a Palamara da parte dei colleghi.

Secondo l’avvocato generale Gaeta, che nel procedimento disciplinare ha rappresentato l’accusa, i comportamenti di Palamara sono stati di elevatissima gravità, avendo egli agito per «pilotare» la nomina del procuratore di Roma (puntando a una discontinuità rispetto al procuratore uscente Pignatone; a seguito dell’inchiesta il Csm ha invece nominato il braccio destro di Pignatone, Prestipino). Non solo, Palamara si è mosso anche per ottenere un procuratore di Perugia «addomesticato» che potesse procedere contro l’avversario romano di Palamara e Lotti, l’aggiunto Paolo Ielo (la procura di Perugia è stata successivamente affidata a Raffaele Cantone).
Secondo la difesa di Palamara, invece, il magistrato va assolto o al limite condannato alla sanzione inferiore della sospensione per due anni dall’ordine. Le nomine per gli incarichi direttivi, ha sostenuto il difensore Stefano Guizzi, hanno un naturale «contenuto politico» e dunque era legittimo per i consiglieri del Csm discuterne con «leader riconosciuti delle correnti» come Palamara e Ferri. In conclusione, la difesa ha avanzato l’ipotesi di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo circa l’utilizzo del trojan. In effetti Ferri era – ed è ancora – un parlamentare, eppure è stato ripetutamente e fin dall’inizio (quindi non accidentalmente) intercettato, in assenza dell’autorizzazione prevista dalla Costituzione.