Caccia allo spot vincente nell’era dei trionfi yuppie
New Journalism Washington, California, New York: diviso in tre parti, il volume di Joan Didion è una storia socio-politica degli anni ottanta, dominati dalla presidenza di Reagan: è lui «Il Re pescatore» del titolo (Il Saggiatore)
New Journalism Washington, California, New York: diviso in tre parti, il volume di Joan Didion è una storia socio-politica degli anni ottanta, dominati dalla presidenza di Reagan: è lui «Il Re pescatore» del titolo (Il Saggiatore)
Non so chi sia stato il primo ad applicare il termine «narrazione» alla sfera della vita politica, certo è che Joan Didion ne fa largo uso nel suo terzo libro di «new journalism», Il paese del Re pescatore, datato 1992, e ora in prima traduzione italiana presso Il Saggiatore (a cura di Sara Sullam, pp. 258, euro 22,00). Diviso in tre parti – Washington, California, New York – il volume raccoglie undici interventi di vario tema e tenore, pubblicati originariamente sul «New Yorker» e sulla «New York Review of Books», e tutti risalenti agli anni ottanta.
Si può quindi leggerlo come la storia socio-politica di un decennio, un decennio di transizione eppure, in quanto segnato dalla fine della Guerra fredda, un decennio cruciale nel mondo, e di conseguenza negli Stati Uniti che, su un piano più culturale, cambiano volto, autorappresentandosi nell’ascesa della generazione neoliberista degli yuppie (così distanti dai «figli dei fiori»), i giovani rampanti della city capitalista e cocainomane, ammiratori di Armani e Versace, di cui troviamo esemplari nei romanzi poco rassicuranti di Bret Easton Ellis. Insomma, nel Paese del Re pescatore Didion racconta in presa diretta l’era Reagan con Washington trasformata in un set hollywoodiano.
Cronache californiane
Ed è infatti, ironicamente, lui, Reagan, il Re pescatore del bel titolo italiano, promosso in copertina dal più velenoso dei saggi interni, a sostituire l’originario After Henry, un omaggio, quest’ultimo, alla memoria di Henry Robbins, il primo editor di Didion. Anche in ragione della prematura scomparsa dell’amico, Didion sa che in queste cronache darà un nuovo timbro e recluterà un nuovo spazio (quello della politica) alla sua scrittura. Il Re pescatore è, come noto, il custode del Graal nel ciclo arturiano, il Re ferito, la cui menomazione trasforma il regno in una terra desolata. È subito chiaro, dunque, il messaggio inviato ai lettori (e a Reagan) da una scrittrice californiana e repubblicana di ferro, attratta ora dal partito democratico. Ed è altrettanto chiaro che il libro, così fresco di profumo reaganiano, di ostie eucaristiche (una delle narrazioni «magiche» prefabbricate dal team del presidente) lasciate cadere nel calice di vino per pura ignoranza del rituale della comunione, non risparmia garbate analisi al vetriolo sul re della capitale. Se le cronache californiane ritornano, aggiornandole, su temi già affrontati in Verso Betlemme e The White Album (una Berkeley post-Vietnam, la Los Angeles Noir, Hollywood in sciopero, lo squallido mercato immobiliare, la nascita del «Los Angeles Times», la fine della California dei vecchi ranch del pionierismo), quelle delle due metropoli della costa orientale vanno a toccare materie di interesse più generale. Ma negli auto-rispecchiamenti il libro è ben studiato.
La vicenda dell’ereditiera Patricia Hearst, figlia di un magnate dell’editoria e nipote del fondatore dell’Università di Berkeley, costituisce il pezzo più inquietante del disorientamento californiano. Rapita proprio a Berkeley nel 1974 dall’Esercito di Liberazione Simbionese, e associatasi al terrorismo di quei guerriglieri, Patty Hearst resta un enigma, mai chiarito neanche dall’autobiografia, In gran segreto, pubblicata nel 1982, quando si riaccesero le polemiche.
Era vittima della Sindrome di Stoccolma, secondo ciò che sostennero gli avvocati difensori al processo, o una criminale consenziente? Oppure – prova a ipotizzare Didion – era semplicemente destinata a mandare in frantumi, in un momento storico propizio, l’incantesimo romantico della vecchia America, la narrazione del mito fallace della Golden Girl del West?
Al suo caso fa da pendant un’altra vicenda sconcertante, quella di una jogger al Central Park, aggredita da una banda di adolescenti neri e ispanici, stuprata e ridotta in fin di vita. Questa è una narrazione «sentimentale» con la quale si preferisce tacere sulle disfunzioni di classe e di razza, ancora piaga del paese. Le due storie costituiscono due versioni al femminile – cui si aggiungerà quella di Nancy Reagan – di una America allucinata, preda, da Est a Ovest, di scompensi irreversibili, mentre la nazione ufficiale, aiutata dai mass media, mette in scena le sue architettate narrazioni politiche: le sue big pictures.
Il cuore pompante resta il potere della comunicazione artefatta. Lo si può vedere bene nel lungo pezzo sulla campagna elettorale del 1988 che vide confrontarsi Michael Dukakis e George Bush (padre), entrambi in gara per costruirsi lo spot vincente nel vuoto creatosi tra la politica e la «vita reale del paese». Solo il cinquanta per cento degli elettori andò a votare, nonostante l’accanimento scenico. Le campagne itineranti dei vari candidati («odissee personali»), scrive Didion,«erano un set», con gli attori, i registi, i responsabili del copione, tutti alla ricerca di un unico «dettaglio colorito», scelto, e quindi pubblicitariamente ripetuto sotto gli occhi dei media, per farne icona della narrazione desiderata (e inventata).
La battuta a Gorbaciov
Parte influente di questo disinnesto dalla realtà fu Ronald Reagan, ispirato anche dalla povera regia dell’ambiziosa Nancy, la quale, pur dietro la maschera di donna di mondo e di stile (ma in realtà condizionata da un forte senso di inferiorità), rappresentò un ottimo esempio dei risvolti più volgari della westerness hollywoodiana, di cui rese oggetto la sua pretenziosa Casa Bianca, un’operazione fasulla che però andò a costituire la propria narrazione personale. Nonostante la perfidia delle frecciate rivolte a Reagan, Didion ci lascia anche l’acume di una battuta impareggiabile, ammesso che sia vera e non sia anch’essa frutto di una fiction da «pensiero magico». Soddisfatto dell’apertura ai paesi dell’Est (la sua Big Picture per la Storia), si dice che il presidente abbia portato in volo Michail Gorbaciov – nel 1987 in visita in America – sulle colline della San Bernardino Valley in California: dopo avere invitato il capo dell’Unione Sovietica ad affacciarsi al finestrino, «gli avrebbe indicato le piscine sotto di loro. “Sono le piscine dei capitalisti” avrebbe detto il capo dell’Unione Sovietica. “No”, avrebbe detto il capo del mondo libero, “sono le piscine dei lavoratori”».
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