Georges de La Tour, “L’Apparition de l’ange è Joseph”, Nantes, Musée des beaux-arts

Un altro «inquilino dell’intérieur» (vedi «Alias D» dell’11 giugno e del 22 ottobre) l’abbiamo scovato girovagando per le sale del Musée des Beaux-Arts di Nantes. Si chiama François Cacault e si deve sostanzialmente a lui se quel museo è oggi così ricco di capolavori, acquisiti nel 1810; ma è solo uno dei tanti nomi di cui è fitta la storia dell’arte, che si compone spesso di storie di collezionisti e donatori, scomparsi all’ombra di musei che pian piano si sono costruiti un blasone a loro discapito.
Eppure anche questo signore un’idea di condivisione con gli altri di un patrimonio privato ce l’aveva eccome, e anche ben precisa. Cacault era nato nel 1742, in quella Venezia dell’ovest di nome Nantes, che in quel tempo ambiva a conquistarsi un primato nel traffico di merci ed esseri umani che imperversava fra una costa e l’altra dell’Atlantico. Fa parte quindi della migliore generazione settecentesca, quella che intraprendeva il Grand Tour a venti o a trent’anni, quando le scoperte di Pompei ed Ercolano erano novità a cui ci si poteva sintonizzare in diretta. Cacault sceglie la carriera di diplomatico e si ritrova al servizio dell’ambasciatore francese a Napoli, che nel 1785 è Louis-Marie-Anne de Talleyrand-Périgord. I nodi giungono al pettine nel 1791 quando quest’ultimo, fratello del più celebre uomo di stato, rassegna le dimissioni e a lui subentra il funzionario. Il nuovo ufficio coincide con l’avanzare delle pretese rivoluzionarie su Napoli, ma il modello di una diplomazia attenta alle arti è ben presente a Cacault: guardate Hamilton, dice in una lettera parlando ai suoi connazionali, come ha saputo ben servire la sua patria, collezionando vasi greci che ora vengono replicati in Inghilterra.
«L’amour des beaux-arts m’attache à l’Italie», e questo avrebbe comportato spostamenti che facilitavano le acquisizioni: dopo gli otto anni a Napoli, Cacault ne trascorre tre a Firenze, divisi in due soggiorni (febbraio 1793 – ottobre 1795 e settembre 1797 – febbraio 1798), meno di uno a Genova (ottobre 1795 – luglio 1796), prima di arrivare al decisivo capitolo romano (luglio – agosto 1796 e aprile 1798 – luglio 1803). I francesi avevano preso possesso della capitale dello Stato pontificio e a Cacault, nonostante le sue propensioni politiche moderate, spetta il ruolo di ministro plenipotenziario. Prende in affitto tutto Palazzo Lancellotti in via dei Coronari, con la collezione di antichità in bella mostra nel cortile e dipinti su dipinti esposti in gallerie che si squadernano una dopo l’altra. Questa sì che è una vita che permette di costruirsi un occhio attento alla nostra pittura! Leggiamo un inventario con delle note di Cacault: il suo apprezzamento di un Giosuè che ferma il sole oggi attribuito a Giovanni Battista Beinaschi si appunta sulla «franchise de touche» del pittore napoletano, e poi sèguita: «Il est très beau, plein de vie et de vérité. Le Styl n’est pas Relevé mais il n’est pas sans noblesse».
Queste considerazioni sono facili a ottenersi perché per fortuna al collezionista sono state dedicate alcune buone ricerche recenti. Sappiamo ad esempio che quando rientrò in patria, si mise a istituire il suo museo privato in un sobborgo di Nantes, di nome Clisson: la palazzina di sua proprietà doveva funzionare da scuola per gli artisti locali, complice il fratello che era un modesto pittore di formazione accademica. I dipinti antichi tappezzavano le pareti di dodici saloni e una galleria, erano in tutto 1555, le incisioni più di diecimila, le sculture, tutte al piano terra, una sessantina. A Clisson si poteva entrare «à toute heure» e i capolavori erano distribuiti nelle sale «sans luxe inutile». Un’atmosfera ideale per esercitarsi a copiare i quadri, o a preparare disegni che poi servissero per le incisioni, e divulgare quindi i «contorni» di un’opera celebre, come aveva già fatto in Francia un precursore quale Jean-Baptiste Séroux d’Agincourt.
Il limite di Cacault sarebbe stato proprio quello di non aver pubblicato un catalogo della sua collezione, sosteneva André Chastel nella prefazione a un’indimenticabile mostra del ’56, De Giotto à Bellini. Les primitifs italiens dans le musées de France, all’Orangerie. In questa occasione, il pubblico parigino poté riscoprire il San Nicola da Bari di Cosmè Tura che è davvero «superbe», o il Bernardo Daddi che Cacault aveva comprato dalla collezione di Lombardo Cristiano Gori, e che, prima dell’intuizione di Michel Laclotte, che di quel catalogo redasse le schede, era considerato di un allievo da Richard Offner. Qualche anno dopo, in un libro magistrale come La fortuna dei primitivi (1964), Giovanni Previtali si sarebbe soprattutto concentrato sui meriti di Alexis-François Artaud de Montor, segretario di legazione di Cacault durante l’occupazione francese di Roma, e di Joseph Fesch, successore di Cacault nel ruolo di plenipotenziario. Artaud, ad esempio, con i soli cento quadri raccolti nella sua collezione di Parigi, diventerà, nel primo Ottocento, il maggiore collezionista-conoscitore francese di dipinti italiani, specializzandosi sui «quatre siècles qui ont précédé celui de Raphaël», per riprendere il titolo di un suo opuscolo del 1810, anche se per Previtali rimane più un epigono di Séroux che un conoscitore vero e proprio.
Ci sarebbe infatti voluto molto più tempo per dare una sistemazione critica a tutto questo sconfinato materiale esportato in Francia, anche perché studiarlo diventava ancora più difficile, una volta allentati i legami con i centri italiani di provenienza delle opere. Per esempio, bisogna attendere le incursioni degli studi di inizio Novecento per ritrovare un pieno apprezzamento della tavola con Sant’Antonio da Padova e San Sebastiano, che è una prodezza giovanile del Perugino. Il santo in primo piano non sembra aver patito per niente le frecce scoccate dai carnefici; è mutato in un giovane affabile dagli occhi azzurri e si volta verso di lui il francescano a piedi nudi, con dietro, uno stuolo di racemi dorati.
Gli occhi di chi vede oggi i dipinti nel museo di Nantes sono obbligati a smaltire un’atmosfera da white cube eccessivamente condizionante, ricreata di recente dallo studio di architettura Stanton Williams. Eppure la parete con i tre Georges de La Tour è indimenticabile: d’altronde era stata proprio una visita in Bretagna a generare in Hermann Voss, nel 1912, lo sblocco del rebus storiografico del gigante lorenese del Seicento. A Nantes, studiando i quadri Cacault, Voss aveva trovato una firma e una data 1650 nella Negazione di San Pietro, una firma nel Sogno di San Giuseppe, e già questo gli bastava per attribuire a La Tour il Neonato del Musée des Beaux-Arts di Rennes. Il terzo dipinto a Nantes, sempre comprato da Cacault, è quel vecchio tragico Suonatore di ghironda, apprezzato per tutto l’Ottocento come opera di Velázquez o di Murillo. È invece un altro capolavoro di La Tour, come riconobbe sempre Voss, ma più tardi, nel 1931. D’altronde il primo articolo dello studioso tedesco, che esce nell’«Archiv für Kunstgeschichte» del 1915, era passato a lungo sostanzialmente inosservato: tanto per dire, il conservatore del Louvre, Louis Demonts, se ne accorge solo perché Roberto Longhi si premura di segnalarlo.
Era forse il momento d’oro, con l’Europa sconvolta dalla guerra, per amare a fondo quell’angelo così infingardo che appare a un San Giuseppe mezzo morto di sonno, con la testa pesante come un sasso. Il bambino, con quei capelli di seta incollati alla testa, lucidi e bloccati dall’orecchio, non sa più cosa fare per rianimarlo. E quella luce spiritica che viene da una fiamma fredda, che non brucia la mano del giovane ultraterreno, rende tutto vero e diabolico.