Byung-Chul Han e gli algoritmi a guardia delle emozioni
Codici Aperti «Psicopolitica», una nuova tappa di un percorso di ricerca sulle tecnologie digitali del filosofo tedesco di origine coreana
Codici Aperti «Psicopolitica», una nuova tappa di un percorso di ricerca sulle tecnologie digitali del filosofo tedesco di origine coreana
Byung-Chul Han è un filosofo atipico. Di origine coreana, si è formato sulla filosofia tedesca del Novecento, anche se è conosciuto nel nostro paese per le tesi che mette in campo rispetto il potere performativo delle tecnologie digitali nelle società contemporanee. Il suo nuovo libro – Psicopolitica – pubblicato come gli altri da Nottetempo, con la traduzione di Federica Buongiorno, costituisce l’ultima tappa di un percorso che ha infatti affrontato i temi caldi della rete (la trasparenza, l’accelerazione del tempo, la stanchezza come condizione generalizzate, lo sciame come modello interpretativo dell’azione sociale).
In questo saggio, tuttavia, l’attenzione è rivolta alle forme di governamentalità presenti nel capitalismo contemporaneo. Fondamentale è qui il rinvio a quel grumo di riflessione teorica che dai seminari sulla biopolitica di Michel Foucault è approdata alla critica delle figure dell’individuo proprietario, del capitale umano, dell’imprenditore poste come fonti di legittimazione del neoliberismo.
La retorica della libertà
L’angolo prospettico scelto da Byung-Chul Han è però sempre la Rete, dato che Internet è infatti diventata una seconda natura del vivere in società. Traspare tuttavia nel libro nostalgia per un indefinito e mitizzato passato e una manifesta indifferenza o ostilità verso qualsiasi politica della trasformazione. L’unica salvezza, scrive l’autore, viene dall’idiota, cioè da colui che si sottrae al potere performativo della rete, che attinge e produce un sapere distinto da quello veicolato dalle tecnologie digitali. Nella sua idiozia c’è «esercizio di libertà».
Quello proposto da Byung-Chul Han è un individualismo radicale che non ha nulla a che fare con una versione riedizione digitale del flâner, che nell’ozioso girovagare nelle strade delle metropoli ne individuava tanto le forme di potere che la possibile defezione da esse. L’idiota delineato dall’autore è figura di libertà proprio perché indifferente a tutto ciò che si muove nella Rete. E nella società.
Individualismo radicale, quindi, che guarda con sospetto sia la vision neoliberista sul capitale umano che quella marxiana dell’individuo sociale. La sua è anche una teoria antitetica alla sempre più diffusa attitudine libertaria che propone l’esodo dalla Rete attraverso la conoscenza del sapere tecnico-scientifico e la consapevolezza dei condizionamenti esercitati sulla psiche dalle piattaforme digitali. La denuncia della Psicopolitica è infatti da considerare una versione elegante del vecchio nichilismo.
È un nichilismo che ha la capacità di individuare l’operato delle forme governo della vita. In primo luogo, non c’è dominio coatto sui singoli. L’individuo proprietario e l’imprenditore di se stesso devono essere infatti lasciati liberi di manifestare i propri spiriti animali.
Nessuna costrizione, ma solo la libertà di arricchire il proprio capitale umano. In termini di amicizie, di uso delle reti sociali di prossimità; in termini di appropriazione proprietaria di un saper che è collettivo. Poco importa se così facendo le disuguaglianze sociali crescano. Quel che è certo è il fatto che il neoliberismo continua a riprodurre se stesso facendo leva su una retorica di una libertà illimitata. Termine declinato a seconda delle latitudini. Byung-Chul Han scrive però da un paese europeo, la Germania. In questo caso libertà è libertà di espressione e di perseguire l’arricchimento personale. Per questo l’alternanza di censura e libertà di comunicazione in rete scandisce il flusso delle informazioni in Rete. Si può scrivere e dire di tutto a patto che la violazioni del politically correct non superi una soglia, che non è stabilita centralmente, ma dal reciproco controllo esercitato dagli utenti della Rete.
I tweet storm o le discussioni furiose on line sulla difesa o critica di affermazioni razziste, xenofobe, maschiliste, ingiuriose attestano che la società del controllo infatti si basa sulla trasformazione di ogni utente in gendarme dell’ordine costituito.
Il politically correct è però un dispositivo fluido, flessibile, mutevole nel tempo e nello spazio. Può essere violato, fino a quando gli automatismi stabiliti da algidi algoritmi bloccano la diffusione di un messaggio che mette in discussione quello che è stato stabilito «culturalmente» essere un comportamento lecito.
Il nodo della censura
Le notizie frequenti che Facebook o Google bloccano messaggi, account e pagine «sconvenienti» sono sempre divise in due movimenti: la censura iniziale e la sua rimozione dopo le proteste degli utenti, con tanto di scuse di qualche amministratore del social network o il silenzio dell’impresa che ha operato il «blocco», come è accaduto allo scrittore e blogger Dennis Cooper, che si è visto bloccare l’account forse per i contenuti dei suoi post (la sessualità eccentrica di maschi queer). L’individuo proprietario può essere ostile o ignorare il politically correct. Questo non costituisce un problema, perché il capitalismo digitale non vuole utenti «docili», bensì uomini e donne «dipendenti» dalle forme della governamentalità esistenti, a partire da quelle piattaforme digitali dei social network e social media che favoriscono la comunicazione sociale.
La censura è quindi sempre temporanea perché il flusso delle comunicazione, cioè dei dati, risorsa preziosa per il fiorente e profittevole mercato dei Big Data, non può essere fermata. La critica, l’irriverenza, l’ingiuria, sono sinonimi di creatività e di innovazione, elementi preziosi per l’accumulo dei Big Data. Dunque la violazione del politically correct può avvenire, ma essere circoscritta. Da questo punto di vista, la libertà di espressione è funzionale non alla contestazione dell’ordine costituito, ma alla formazione di «tribù di simili» sui social network in base a affinità elettive.
Il management delle emozioni
Nel volume compaiono spesso espressioni come capitalismo delle emozioni e management emotivo. Sono infatti le emozioni che costituiscono gli architrave dei Big Data: un buon management non può che amministrarle e creare le condizioni affinché si manifestino «liberamente», anche se sconvenienti. Ma i Big Data non sono funzionali a nessuna ricerca della verità. Il loro accumulo non prevede nessuna etica della responsabilità, perché il loro contenuto è irrilevante, visto che viene elaborato, confezionato e venduto per diversi motivi, da quello più scontato (mirate strategie pubblicitarie) a quello in voga ormai nelle stanche democrazie liberali per stilare sondaggi e rappresentazioni di una frammentazione sociale che la «politica» deve sfruttare per conquistare consenso.
La mutazione di uomini e donne in imprenditori di se stessi, liberi da ingerenze che non siano quelle dettate dalla gestione manageriale delle emozioni (i like posti nei messaggi sui social network), alimenta un oliato meccanismo monetario che consente ai singoli di ampliare la propria platea di «spettatori» (più paghi, più spettatori puoi avere) determinano la scomparsa, afferma l’autore, delle classi sociali, sostituite da classi virtuali, riducendo infine la politica, intesa come governo delle vite, in amministrazione dell’esistente. Da qui lo scetticismo radicale per qualsiasi politica della trasformazione. La Psicopolitica è quindi il Politico nell’era neoliberale. La salvezza da questo vischioso meccanismo di soft power sta, per Byung-Chul Han nell’impoliticità, nella rinuncia a connettersi, a stabilire relazioni.
Inoperosa indifferenza
Il riferimento implicito nel volume è al romanzo L’idiota dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij. Lì come in queste pagine l’idiota è un buono, inconsapevole delle forze che condizionano la sua vita. Conduce la sua vita sballottato da un evento all’altro. Oppone solo la sua ingenuità e bontà, alle quali non rinuncia anche quando la misura è colma. Non è quindi un uomo in rivolta, bensì un uomo inoperoso.
La disconnessione dalla Rete è l’anticamera di un mondo non molto lontano da quello descritto dal grande vecchio dell’individualismo radicale, Max Stirner. L’«unico» ha la proprietà di salvare la sua anima, il resto è solo costrizione. Troppo poco per rompere la gabbia dell’individuo proprietario.
Troppo poco anche per cercare margini di sopravvivenza, perché l’inoperosità, la disconnessione sono contemplate, fanno parte di quella politica dell’esclusione differenziata propedeutica al flusso dati. A tale inutile inoperosità è meglio contrapporre semmai l’immersione nel flusso, provando a modificarlo, interromperlo quando serve, sovvertirlo. Più che una disaffezione alla Rete, la via di fuga è dunque agire il conflitto dentro di essa. L’idiotismo (termine che l’autore usa) può essere anche un virus che si diffonde, ma è una figura autoconsolatoria che lascia inalterata la realtà.
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