Butta la macchina, usa la bici
Ogni tanto mi imbatto in articoli che strombazzano «la bici del futuro». Ne spuntano periodicamente e l’espressione viene usata anche fuori contesto tecnico. L’ultima volta che l’ho sentita dire l’aveva […]
Ogni tanto mi imbatto in articoli che strombazzano «la bici del futuro». Ne spuntano periodicamente e l’espressione viene usata anche fuori contesto tecnico. L’ultima volta che l’ho sentita dire l’aveva […]
Ogni tanto mi imbatto in articoli che strombazzano «la bici del futuro». Ne spuntano periodicamente e l’espressione viene usata anche fuori contesto tecnico. L’ultima volta che l’ho sentita dire l’aveva pronunciata il sindaco di Milano, Beppe Sala, lanciando Milano Bike City, meritoria iniziativa che per due settimane coinvolgerà – ahimé credo blandamente, conoscendo i miei polli italici – la città. Sala si riferiva alle bici cosiddette elettriche, quelle con il motorino che ti aiuta in salita o quando decidi tu, sveltendo la pedalata e alleggerendo l’impegno fisico. Salvo poi, basta informarsi, ricordare che le bici elettriche nascono negli anni ‘30 (Philips Simplex, Gazelle), ma quella volta senza successo.
Gli articoli che periodicamente si lanciano in intemerate del genere sono più o meno tutti dello stesso stampo. Leggi il titolo, che contiene l’eccitante parola «futuro», e non puoi fare a meno di precipitarti a leggere. Normalmente salto l’introduzione e vado nel dettaglio, cercando la genialata che solo il mondo contemporaneo e tecnologico poteva concepire e realizzare nella sua Enorme Potenza. Gratta gratta, si tratta ultimamente di app che ti lasciano dialogare con il mezzo attraverso lo smartphone, quindi roba piuttosto evitabile o comunque irrilevante nella struttura del mezzo. Ce n’è una che persino dialoga con gli altri mezzi: anche questa diciamo un surplus (basta attivare il cervello rilasciato di serie, in ogni guidatore). Oppure la pieghevolezza, o appunto il boost elettrico, la bici cargo, cose così.
Facciamo un gioco? Ora dico «biammortizzata, pieghevole, faretto integrato, dinamo solidale al telaio, freno integrato nel mozzo». Come minimo tu pensi a un progetto di questi anni. Sbagliato: è una degli ultimi modelli costruiti da Bianchi per il Regio esercito italiano, attività che il fondatore Edoardo aveva iniziato negli anni ‘10 ma del secolo scorso, vincendo una gara bandita dai bersaglieri. Era una biammortizzata geniale, che usava semplicissimi pezzi di gomma incastrati nel telaio, e si piegava lungo due direttrici per poterla portare sulla schiena come uno zaino. In Inghilterra i paracadutisti usavano una bici simile durante la Seconda guerra mondiale, ma non era biammortizzata.
Qualche anno fa Cannondale ha lanciato la Lefty, bici con la forcella anteriore a un solo gambo e la ruota montata a sbalzo. «Magnifico – pensi – solo con i fantastici materiali di oggi si riesce a fare una cosa del genere». Altro sbaglio: a fine ‘800 la ditta francese Robur brevettò e costruì una bici da pista monoforcella, non solo davanti ma anche dietro, con le due ruote a sbalzo.
Va bene, allora le bici cargo; e non i tricicli da panettiere ma roba moderna come i Bullit (è un marchio danese), detti popolarmente long john, quelli con la ruota anteriore a quasi due metri dal pedalatore. Peccato che in Danimarca esistano dai primi anni del ‘900.
Bici senza catena, con cinghia o cardano, per non sporcare i pantaloni? Roba, anche qui, dei primi tempi della bici, che grossomodo ha 200 anni nella forma classica che tutti conosciamo, quella con le due ruote della stessa misura e il telaio «a diamante», detto così per la sua forma romboidale ottenuta contrapponendo due triangoli in modo inverso: la forma più rigida e robusta in natura su questo pianeta.
Arrendiamoci: la bici del futuro è tra noi fin dalla sua nascita. E suppongo che continui così, per un motivo semplicissimo: come le scarpe, le bici sono costruite intorno al fisico dell’uomo. Quindi, amico, rassegnati e molla ‘sta diavolo di macchina: il futuro era tra noi da un pezzo.
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