Buonarroti «gradina» del pensiero, dagli esordî nel giardino di san Marco
Da Officina Libraria «Michelangelo: le opere giovanili Nuove acquisizioni», a cura di Cristina Acidini e Alessandro Cecchi
Da Officina Libraria «Michelangelo: le opere giovanili Nuove acquisizioni», a cura di Cristina Acidini e Alessandro Cecchi
La collana «Buonarrotiana. Studi su Michelangelo e la famiglia Buonarroti» nasceva quattro anni fa tra le pareti di Casa Buonarroti a Firenze come uno dei Quaderni che ritmano spesso la vita dei musei, italiani e non solo, creando un legame tra chi è dentro l’istituzione e chi la vive da fuori, da visitatore, amatore, affezionato o studioso. La collana, per via di affondi monografici, è oggi al terzo numero, a cura di Cristina Acidini e Alessandro Cecchi: Michelangelo: le opere giovanili Nuove acquisizioni (Officina Libraria, pp. 257, euro 25,00). Il libro si concentra sui recenti restauri della Madonna della scala e della Battaglia dei centauri componendo, con affondi mirati e indagini tecniche, una sorta di utilissima super-scheda in cui lo sguardo può concentrarsi sul minuscolo o allargarsi al contesto.
I capolavori della giovinezza sono la chiave per comprendere l’origine di modalità creative che accompagneranno Michelangelo tutta la vita. L’artista è stato il più celebre tra i frequentatori della scuola di scultura nota come il Giardino di San Marco, messa insieme da Bertoldo di Giovanni, l’ultimo allievo e collaboratore di Donatello, e voluta da Lorenzo de’ Medici su un probabile suggerimento di Poliziano, perché, dice Vasari, «ne’ suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili». Michelangelo vi entrò con un altro allievo di Ghirlandaio, l’amico Francesco Granacci. Tra le sculture antiche e moderne della collezione dei Medici, l’anziano Bertoldo insegnava a disegnare, modellare la terra e scolpire, studiando e copiando disegni, cartoni e modelli di Donatello, Filippo Lippi, Masaccio eccetera. Michelangelo entrava nel Giardino quindicenne, con i rudimenti della scultura già acquisiti; all’apice della fama sarà lo stesso artista, tramite il suo biografo Condivi, ad alimentare il mito: come Lisippo, «non dall’altrui fatiche e industrie, ma dalla stessa natura ha voluto apprendere». Lo studio e il restauro delle due primizie, dal Cinquecento legate indissolubilmente alla casa fiorentina dell’artista in Santa Croce, ha permesso di individuare gli strumenti di lavoro impiegati dallo scultore: sono subbie e gradine affilate e commisurate alle superfici da affrontare, e forse perfezionate per l’uso da Michelangelo stesso, in un faccia a faccia con la materia.
Nel Giardino l’artista guadagnò un rapporto di famigliarità con il Magnifico, tanto da avere una buona camera in casa Medici e sedere, a tavola, proprio accanto ai figli di Lorenzo, godendosi quanto di meglio la città poteva offrire in quel frangente vertiginoso per la formulazione del pensiero. Quel ruolo acquisito sarà stata una bella rivalsa nei confronti del padre e dello zio Francesco, che sminuivano le aspirazioni di Michelangelo a quelle di uno scalpellino, ma varrà anche per distinguersi dai compagni, levandosi la polvere dell’esercizio meccanicissimo sul marmo e dando la priorità all’intelletto: «ché io non fu’ mai pictore né scultore come chi ne fa boctega. Sempre me ne son guardato per l’onore di mie padre e de’ miei frategli». Perciò Michelangelo, sganciato dal sapere tradizionale delle botteghe, nel cui sistema non si rispecchia, viaggia su altri lidi: non imita passivamente un maestro, ma fa suo ciò che gli fa comodo rielaborando e combinando modelli e tecniche dei contemporanei e degli antichi, con una predilezione per artisti attivi a due o più generazioni di distanza. È un lavoro critico, prima che meccanico. Emerge anche uno scambio costante e fondamentale con Poliziano, più di quanto si sia pensato nel passato; l’avvio di carriera dell’artista coincide con gli ultimi anni della vita dell’umanista che, stando a Condivi, «molto lo amava e di continuo lo spronava», facendosi suggeritore di temi e modalità di lettura delle opere. Ma la questione è molto più intricata di così, e il rapporto poteva non essere unidirezionale. La capacità di appropriazione ed elaborazione stilistica di Michelangelo, in un crescendo rapidissimo, doveva certo far riflettere il filologo sui fondamenti della propria disciplina.
Il Magnifico muore nel 1492. Due anni dopo, il 29 settembre 1494, Poliziano. La splendida stagione del Giardino finisce, portandosi via la prima giovinezza. A pochi giorni dalla morte improvvisa dell’umanista, Michelangelo si sposta a Bologna: se non un viaggio già programmato, è però certo che l’accoglienza fu ancora nel segno dei buoni rapporti intessuti da Poliziano negli anni precedenti. Intanto la storia dei suoi due primi capolavori si comincia a saldare a quella dell’edificio che ancora li ospita. Fino, appunto, al nuovo allestimento, e a questi studi.
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